Nell’era dei tweet, dell’esibizione ad ogni costo, dell’uso del corpo quale esplicitazione dell’argomentazione, non c’è da stupirsi che anche l’abbigliamento diventi una condizione imprescindibile di un certo modo di fare politica, tutto rivolto all’apparire.
E bisogna dare atto a Salvini che quanto ad apparire non è secondo a nessuno. Tanto è vero che «Verificando le rilevazioni dell'ultimo mese monitorato, dal 17 gennaio al 13 febbraio, emerge un dato che appare decisamente sconvolgente: Salvini ha avuto da Raitre uno spazio incomparabilmente più alto rispetto ad altri leader dell’opposizione e addirittura doppio rispetto al premier e segretario del Pd, Matteo Renzi». (http://www.huffingtonpost.it) Nulla di nuovo verrebbe da dire, sotto questo aspetto. Sappiamo bene che ciò che conta in tv, ma anche sui media, in generale, è che il prodotto “tiri”, non tanto il contenuto e il valore dello stesso, ed evidentemente, quale prodotto di mercato, Salvini contribuisce a fare audience. Naturalmente se si va a scavare anche soltanto un poco; a guardare dentro il prodotto promosso, ci si accorge rapidamente, a meno di non avere le fette di salame sugli occhi, che oltre i luccichii (si fa per dire!) della merce esibita, la confezione è priva di valore. Insomma sotto la felpa, viene da dire, non c’è propri niente. Il nulla assoluto, in termini di proposta, di ragionamento, che non siano, anche se rinnovati negli slogan, i soliti argomenti a sfondo razzista, xenofobo e di contrapposizione con tutto e tutti coloro che non siano assimilabili a “noi”, comunque inteso. Del resto che il populismo, del quale si è fatto interprete, si regga sulla mancanza di conoscenza, di cultura, di rifiuto di tutto ciò che richieda analisi più approfondite, studio e sapere è lo stesso Salvini, inconsciamente, a dimostralo quando afferma che: «Gli uomini di sinistra leggono un sacco di libri, peccato che poi non li capiscano. Io ne leggo due ma ne capisco due». (http://www.ilfattoquotidiano.it) Evidentemente quel “due” non sta per due libri interi, ma probabilmente per due righe, e siamo generosi, se è vero che durante la manifestazione di Roma ha avuto l’indecenza perfino di citare don Milani, mostrando tutta la sua ignoranza riguardo al priore di Barbiana, del quale si è limitato a citare una frase, probabilmente non sapendo nemmeno contestualizzarla. «Caro Salvini, per favore, - scrive Famiglia Cristiana - giù le mani da don Milani. Non tanto perché don Milani non era uomo di nessuno se non del Vangelo da vivo, e non ci pare opportuno che venga ascritto alla ditta di alcuno da morto (vale anche per altri che l'hanno tirato per la tonaca in questi anni). Men che meno a una ditta che si sente più affine - a giudicare dalle dichiarate sintonie lepeniane - al "me ne frego", che all’ I Care, che c’è ancora sulla porta della stanzetta ch’era stata di don Lorenzo, lassù a Barbiana. Non tanto perché probabilmente, se fosse vivo, don Milani troverebbe le Barbiana di oggi ai margini attuali. E sarebbe fin troppo facile dirsi che il margine del margine, qui e ora, sono i bambini che sbarcano soli a Lampedusa o che sfuggono alla scuola perdendosi sulla strada che porta ai campi rom». La rivista dei Paolini conclude dicendo: «Non sappiamo, anche se possiamo immaginarlo come sarebbe stato un pomeriggio di Salvini a Barbiana, ma siamo abbastanza convinti che se ci fossero in giro tanti don Milani, i Salvini di turno avrebbero minor seguito». Ciò che spetta a tutti noi fare, a quanti hanno a cuore davvero le sorti del Paese, della democrazia, della giustizia sociale, dell’inclusione, è non abbassare la guardia e non arrendersi a chi vorrebbe, facendo leva sul malcontento e il disagio reale, tante volte drammatico, nel quale vivono fin troppe persone, farci precipitare dentro l’abisso della contrapposizione tra poveri, aprendo la strada a una società ancor più disgregata e potenzialmente esplosiva. È da sperare che la storia possa insegnarci ancora qualche cosa al riguardo.