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22 nov 2014
AVEVO FAME
Scritto da Piergiorgio |
Letto 3881 volte | Pubblicato in Il mio blog
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Quante volte, noi cristiani, abbiamo ascoltato, meglio sarebbe dire udito, il brano evangelico proposto dalla liturgia domani? Probabilmente innumerevoli volte e tuttavia quanto poco abbiamo saputo e sappiamo far nostro quanto il brano domanda!

Nella sua icasticità, a parere mio, offre la soluzione agli innumerevoli problemi, drammatici, nei quali versa così gran parte dell’umanità. Non derivano, infatti, sostanzialmente, dal fatto che gli uomini si fanno guidare da criteri del tutto contrapposti da quelli lì richiamati? Dal problema del lavoro a quello della casa, da quello della salute a quello della fame, da quello della xenofobia, del razzismo, a quello dell’esclusione sociale, non origina tutto dal fatto che siamo mossi da un unico appetito: quello dell’accumulo, del possedere, del volere solo per noi quanto dovrebbe essere per tutti e ciascuno? Il saggio Capo Tuiavii di Tiavea delle Isole Samoa (cfr libro Papalagi), acutamente osservava, parlando dello stile di vita degli europei che “«Lau» nella nostra lingua significa mio, e anche tuo: sono quasi la stessa cosa. Nella lingua del Papalagi (il bianco) invece non ci sono parole con significati più diversi di «mio» e «tuo». È mio quel che appartiene unicamente e solamente a me. Tuo è quel che appartiene unicamente e solamente a te. Per questo il Papalagi dice di tutto quel che si trova vicino alla sua capanna: è mio. Nessuno vi ha diritto eccetto lui stesso. Ovunque tu vada dai Papalagi, ovunque tu veda qualcosa nelle sue vicinanze, sia esso un frutto, un albero, acqua, foresta, un mucchietto di terra, c’è sempre qualcuno che dice: «Questo è mio! Guardati dal prendere quel che è mio!» Se tu lo fai, ti urla contro, ti chiama ladro, una parola che rappresenta una grande vergogna, e solo perché hai osato toccare il «mio» del tuo prossimo. Accorrono gli amici e i servitori delle supreme autorità ti mettono in catene e ti portano in prigione, e sei disprezzato per tutta la vita”. Nelle parole del capo Tuiavii, c’è maggior saggezza di quanta ce ne sia in tanti trattati di sociologia politica o in tomi di economia e finanza o da quanto emerge da tavoli e colazioni di lavoro di leader politici che sanno prospettare sempre e solo la solita ricetta. Non ci si accorge che ciò che ammazza le persone, quelle concrete in carne e ossa, è proprio il rifiuto di farsi carico di loro, dei loro bisogni. Il peccato più grande che possiamo commettere, è quello di omissione e probabilmente è anche quello meno confessato, da quanti ancora si accostano al sacramento della riconciliazione, tra i credenti. Eppure il brano evangelico in questione è molto chiaro sull’argomento; non lascia spazio a dubbio di sorta. Ciò che decide della vita di ciascuno di noi è quanto facciamo o non facciamo a favore degli altri. Qualcuno certo può illudersi che la vita propria cresca attraverso altre modalità che non l’agire concreto, premuroso nei confronti del prossimo, ma, appunto, si tratta di un’illusione che porta soltanto allo svuotamento di noi stessi, alla morte. Il colore della pelle, la lingua, la situazione sociale o morale, l’appartenenza etnica, la mancanza di documenti, l’antipatia personale e quant’altro segni chi domanda in modo esplicito e meno il nostro soccorso, non possono essere argomento valido di giustificazione per non offrire il nostro aiuto. È il bisogno dell’altro che siamo chiamati e vedere, e a quello, rispondere. Certo, ciascuno per quanto gli è possibile, individualmente, ma poi operando assieme per cambiare in senso sempre più solidale la società nella quale viviamo. Questo in definitiva è fare buona politica e anche vivere con dignità e in modo responsabile.

 

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