È sempre difficile mettersi in cammino. Presuppone il desiderio di uscire da se stessi, la curiosità dettata dalla consapevolezza che non ci basti quanto già conosciamo, l’aspirazione ad ampliare il nostro orizzonte di vita, la nostra visuale tendente a rinchiudersi dentro le nostre opache certezze.
È quanto fanno i pastori all’annuncio dell’angelo. “Andiamo fino a Betlemme per vedere quanto è accaduto e che il Signore ci ha fatto sapere”, dicevano gli uni agli altri. (Lc. 2, 13) Con ogni evidenza, stando al vangelo, ma è quanto possiamo osservare anche nella vita concreta di ogni giorno, coloro che sono più disponibili a lasciarsi interrogare dalle novità, non sono gli sazi, ma gli affamati; non coloro che sono ricolmi di beni, ma quanti dalla vita sono spogliati. Non c’è da meravigliarsi che sia così. Quanti possiedono beni e ricchezza in quantità, s’illudono di poter riempire il vuoto esistenziale, che pure li afferra, come ci afferra tutti, attraverso l’accumulo di quelli stessi beni, incuranti di quanti vivono loro a fianco e che abbisognano perfino dell’indispensabile per vivere. Tanto meno, costoro, sono disposti a lasciarsi interrogare da segni assolutamente normali, come è accaduto per i pastori, quali un bambino appena nato. Forse siamo un po’ tutti alla ricerca di segni straordinari ai quali aggrapparci, per dare significato al nostro vivere, e piuttosto riluttanti a lasciarci interrogare dalla vita nel suo dispiegarsi abituale, ordinario, imparando a leggere tra le pieghe del quotidiano, quanto la stessa ci rivela in continuazione. È più facile, per molti, afferrarsi a simboli, ad esempio, svuotati però dal loro significato più profondo, piuttosto che lasciarsi interrogare da ciò che il simbolo rimanda. Non è forse quanto avviene da parte di cloro che sono sempre pronti a intervenire per “difendere” le nostre sacre tradizioni, il presepe, per rimanere alla cronaca, incuranti, quando non addirittura ferocemente contrari ad accogliere e farsi carico di quei fratelli e quelle sorelle che dal presepe e nel presepe sono plasticamente raffigurati? Simbolo, è termine derivante dal greco symbàllò, “metto insieme”, che in origine stava a significare le due metà di un oggetto che, spezzato, può essere ricomposto avvicinandole: in tal modo ogni metà diviene un segno di riconoscimento. Ecco che allora non è possibile limitarsi a onorarne soltanto una parte, se non a rischio di trasformarla in un idolo, in una raffigurazione mortifera. Per uscire da una mentalità autoreferenziale è necessario mettersi in cammino; lasciarsi sollecitare dal desiderio di vedere che è molto più di un semplice guardare con gli occhi. Richiede l’apertura del cuore, la disponibilità a lasciarsi compenetrare dall’altro, dal suo esistere, dal suo bisogno, così da riuscire a riconoscere nell’altro un proprio simile, un fratello, una sorella in umanità. Questo è possibile solamente a condizione di sapersi spogliare da tutto quanto è di impedimento a vedere nell’altro un nostro pari, pur nella diversità che ci contrassegna e, proprio in quella diversità saper cogliere ciò che manca alla nostra umanità. Un bambino che dorme accanto ai suoi genitori, a ben pensarci, non è un segno straordinario. Non c’è nulla di più ordinario e quotidiano di questo, eppure i pastori, vedendolo, credettero che era il Salvatore e pieni di gioia ne parlavano a tutti. Anche noi, come loro, siamo chiamati a saper vedere, nello svolgersi del quotidiano, i segni disseminati ovunque di umanità. Se li sapremo cogliere, se sapremo lasciarci provocare da questi, impareremo, con gioia, a scoprire di appartenere a un’unica famiglia umana nella quale non può esserci spazio per le discriminazioni, le esclusioni, le ingiustizie e, rinfrancati, sapremo far nostre le attese, le gioie, le sofferenze, le speranze di tutti, nell’impegno concreto, quotidiano a realizzare una società alla quale appartenere sia bello e possibile per tutti; specialmente per quanti, nella temperie del presente, sono posti al margine, son trascurati, non contano, sono considerati dei nessuno. È da loro che dobbiamo imparare a ripartire, senza scoraggiarci dei venti contrari, certi che la salvezza non verrà dai potenti ma da coloro che, come quel bambino di Betlemme, possono aiutarci a riscoprire la nostra umanità e il nostro bisogno di cambiamento. Con questo spirito auguro a tutti i miei lettori, un buon Natale.