Confessiamolo: la violenza ha un suo sottile fascino che permea le coscienze di molti, anche perché, molto spesso, della stessa, ne abbiamo un racconto puramente astratto che si ferma sulla porta di casa e si materializza attraverso il televisore fra uno spot e l’altro. Non ne abbiamo esperienza diretta, per nostra fortuna. Nel migliore dei casi è oggetto di dibattiti da salotto come avviene in questi giorni in tutti i talk show, al bar o fra gruppi di amici. L’odore acre della polvere da sparo, gli incendi, gli squarci inferti alle abitazioni, le ferite mutilanti dei corpi, lo strazio delle carni, sono tutte cose che non sperimentiamo di persona.
Ecco perché ci è relativamente facile prender posizione sulla guerra in atto in Libia, senza porci troppe domande circa la validità degli assunti che con tanta sicumera sosteniamo da una parte e dall’altra. Quando la violenza tocca altri, a seconda di come la percepiamo, ci è estremamente facile affermare, sia il dovere di intervenire usando la forza, che il suo contrario. Nel primo caso prevarrà, pur con le inevitabili sfumature che sempre si ripropongono, la convinzione che sia possibile in qualche modo limitare, contenere, gestire, la violenza necessaria a contrastarne un’altra, nel secondo caso la convinzione opposta, unita alla persuasione che comunque la violenza sia sempre da bandire in assoluto. Questa che propongo, probabilmente sarà una estremizzazione e semplificazione delle possibili posizioni in campo, però abbastanza verosimile. Quella che manca, nel dibattito, è la voce delle persone coinvolte nella tragedia della guerra in atto. Intendo la popolazione di Benghazi, ad esempio, per restare alla Libia. Per essere ancora più precisi, intendo la gente comune, quella che non ha imbracciato le armi, ma era coinvolta nei moti di protesta contro il tiranno, e che vedeva il suo futuro minacciato, non solo a parole. Ancora, vorrei poter sentire la voce di quanti, magari controvoglia, si sono visti costretti ad imbracciare un fucile, al solo scopo di difendersi e difendere i propri cari. Ammazzare qualcuno coi videogames, può essere perfino divertente; farlo per davvero, dev’essere qualcosa di talmente sconvolgente, da segnare per sempre l’esistenza di una persona, anche se, nella circostanza data, del tutto legittimo e perfino inevitabile. Ciascuno, per se stesso, può decidere secondo coscienza, ed accettare eroicamente di soccombere alla violenza, piuttosto che inferirla a qualcuno. Nessuno però può, a cuor leggero, decidere per altri, senza tenere conto di cosa questi altri vorrebbe si facesse per loro, anche se in contrasto con il proprio sentire. Insomma, subire una violenza, o al contrario, esercitarla nei confronti di qualcuno, non è davvero come parlarne semplicemente. Probabilmente sarà un accostamento poco azzeccato, ma il nostro dibattere attorno a queste questioni, somiglia molto a quello fra vegetariani convinti e quanti non lo sono. Né gli uni né gli altri, per cibarsi, devono sporcarsi, per così dire, le mani. Quanto serve al loro sostentamento, lo trovano già bell’e pronto sugli scaffali asettici dei supermercati; non hanno bisogno di misurarsi con la fatica e le contraddizioni del lavorare i campi o dell’allevare bestiame. Entrambe incombenze che non permettono di dividere con taglio netto il giusto dall’ingiusto; il dare la vita, piuttosto che il toglierla, chiamandosi fuori dal coinvolgimento personale. Anche le guerre moderne, che ormai facciamo per procura, ci permettono di guardarle con assoluto distacco, e lo schierarci a favore o contro, può perfino diventare una sorta di tifo da stadio. Le armi sempre più sofisticate che possediamo, permettono di ammazzare esseri umani, risparmiandoci la vista del sangue e conteggiando i morti quasi fossero birilli. Ma poi basta l’arrivo di qualche migliaio di profughi sui nostri litorali, perché quelli mica possiamo nasconderli agli sguardi, (anche se vorrebbero tanto poterlo fare!), per farci precipitare, per nostra fortuna, dentro la realtà, fuori dal virtuale.