La vita ha il volto del piccolo Yeabsera, che significa dono di Dio, in questi giorni di violenza e di morte che caratterizzano la missione alla quale partecipa anche l’ Italia. Giustificata, inevitabile, doverosa, o al contrario sbagliata, comunque la si voglia considerare l’azione intrapresa dai così detti “volenterosi”, chiamiamola con il nome che le si addice: guerra. E la guerra, semmai possa avere una sua razionalità, è sempre strumento di morte. È pertanto singolare che per essa non si lesinino i mezzi: economici, tecnici e persino in vite umane. Per la difesa e la promozione della vita delle persone, per il loro benessere, al contrario, si accampano mille giustificazioni per non farsene carico; e sempre con argomenti che, a prima vista, possono apparire perfino convincenti.
Comunque “ragionevoli”. Sono bastate alcune migliaia di immigrati, giunti recentemente a Lampedusa, per mettere letteralmente in crisi la settima potenza mondiale e far straparlare più di un suo qualificato, o che dovrebbe esser tale, rappresentante di governo. Davvero siamo ridotti male! L’inerzia, la lentezza e disorganizzazione con la quale si sta affrontando il sovraffollamento dell’isola, fa sorgere il sospetto che si tratti di qualcosa di voluto; comunque in qualche modo assecondato. Difficile sfuggire alla sensazione che tutto sommato tenere, sia pure in condizioni disumane, tante persone su un territorio così ridotto, quale è l’isola di Lampedusa, risponda alla necessità inconfessabile di mantenere il controllo totale sugli sfortunati colà approdati, dal momento che quel territorio si presta naturalmente per essere un carcere a cielo aperto. È assai difficile, infatti, senza mezzi e senza denaro poter sbarcare in continente, mentre dal continente è più facile sfuggire alla sorveglianza di centri di raccolta, magari improvvisati e poco sorvegliati. Si obietterà che non possiamo accogliere tutti e che fra quegli immigrati ci sono anche persone che non hanno alcun titolo per rimanere nel nostro paese. Può anche essere che l’osservazione sia vera, ma è altrettanto incontestabile che per poterlo affermare con certezza, va verificato. E non in modo sommario, come si farebbe se ci dovessimo occupare di polli, che si possono identificare in base al colore del piumaggio o alla grandezza, ma identificando ogni singola persona; verificando la sua storia, cercando di capire le ragioni autentiche del suo essere approdato in Italia. Sono tutte storie che ci devono interpellare, semplicemente perché sono storie di persone, come lo siamo noi. Perché sono portatrici di diritti inalienabili, financo riconosciuti da leggi nostre e da convenzioni internazionali che come paese abbiamo sottoscritto, ma dei quali facciamo tante volte volentieri a meno di ricordarci. Perché è più facile, perché conviene politicamente, perché vorremmo nascondere alla vista le tante miserie che affliggono il mondo che ci circonda, del quale ci sentiamo parte a fasi alterne. Il piccolo Yeabsera partorito sul barcone partito dalla Libia, è qui a ricordarci che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” e che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”. Magari per il piccolo Yeabsera siamo anche disposti a commuoverci perché si tratta di un neonato, dimenticando che anche tutti gli altri sono stati bambini, che sono pur sempre figli di qualcuno, che chiedono soltanto di poter vivere una vita dignitosa. Chissà se il piccolo Yeabsera potrà domani considerarsi italiano e magari dar lustro al nostro paese come è accaduto ad altri, questa volta italiani, finiti all’estero per disperazione, oppure, al contrario, si vedrà disconosciuto e sarà considerato apolide: ossia un morto vivente, senza alcun diritto