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Sono del parere che l’arma della violenza sia l’arma degli imbecilli, di quanti non hanno capacità di esprimere il proprio punto di vista, di coloro che ritengono di possedere la verità, di quanti sono prigionieri della loro parziale visione del mondo e delle cose, di quanti mancano di quell’ingrediente così umano che si chiama compassione; e cioè la capacità di vedere nell’altro, in qualunque altro, perfino nel nemico più acerrimo una persona con la stessa identica dignità. Quello che fa differente una violenza dall’altra è solo la modalità con la quale viene espressa, ed è difficile affermare quale sia la peggiore; ammesso che si possano fare delle distinzioni.
La libertà di pensiero e di parola parla un linguaggio plurale e sostanzia il concetto stesso di democrazia. Non a caso la nostra Carta Costituzione, all’art. 21, la tutela. Il potere, al contrario, la teme; sempre, e quando può usa degli strumenti a sua disposizione per comprimerla, limitarla canalizzarla a suo favore. Tanto più quando il potere si regge sulla prevaricazione, l’abuso, la manipolazione delle coscienze, l’uso distorto del consenso elettorale conseguito, come sta avvenendo da parte dell’attuale governo.
La politica, si afferma, è l’arte del possibile, ed è certamente così. È altrettanto vero però che in tantissime occasioni si rivela come la piazza sulla quale gli uomini si esercitano nella tecnica del cinismo. La storia è piena zeppa di esempi in tal senso; non c’è che l’imbarazzo della scelta. Domenica 11 settembre si sono commemorate le vittime degli attentati di dieci anni or sono con l’abbattimento delle Torri Gemelle. Ricordo doveroso e che certamente non basta a riempire il vuoto, a lenire il dolore di quanti hanno perduto nell’occasione i propri famigliari e amici.
L’appetito vien mangiando, recita un vecchio adagio. Pare faccia al caso nostro. Come interpretare diversamente il dibattito in corso, tra manovre economiche annunciate, proposte, ritirate e poi ancora rilanciate, per essere nuovamente ridiscusse e ripresentate? Talvolta mi sorge il dubbio, credo non infondato, che contrariamente a quanto si afferma, dietro il gran trambusto di parole si nasconda un vuoto di pensiero, di visione. Difficile sottrarsi alla sensazione che ci sia chi ci marcia, speculando cinicamente su questioni che richiederebbero ben altra levatura di pensiero e di proposta, se non altro per rispetto verso quanti la crisi la stanno già pagando e per coloro che la pagheranno cara anche nel prossimo futuro.
Proviamo a fare un semplice calcolo. Stando a quanto ci dicono i numeri e le inchieste, se la ricchezza complessiva del nostro Paese poniamo sia di valore 1.000 e la popolazione dell’Italia pari a 100 abitanti, avremo questa situazione: dieci persone possederebbero una quota pari a 400 di tale ricchezza e 90 si dividerebbero il restante 600. Sempre dal punto di vista statistico, significherebbe che ciascuna delle 10 persone più ricche potrebbe contare su una ricchezza personale pari a 40, mentre le altre 90 persone di dividerebbero un capitale personale di circa il 6,6.
Parlano, parlano; sono un fiume di parole ma tante volte non dicono proprio niente, o se dicono qualcosa, beato chi li capisce. Non tutti; non sempre, ma certo una buona parte. Mi riferisco a certi politici, ma potrei aggiungere altre persone che in questi ultimi tempi amano pontificare sulla crisi che ci attanaglia e sui rimedi, quando ne parlano, per venirne fuori. Di tanto parlare, una sola cosa mi pare abbastanza chiara, comunque procedano le cose, a pagare saranno sempre gli stessi, in altre parole tutti noi, che in misura diversa già fatichiamo a far quadrare i conti di casa.
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