Le ragioni per cedere allo sconforto, allo scoramento, son davvero tante e interessano vari ambiti della nostra esistenza: sociali, politiche, economiche, culturali, religiose ecc. Come non farsene travolgere? Io credo serva anzitutto ridirsi le ragioni nelle quali affonda la speranza, che risiedono in ultima istanza nella convinzione che la vita, la vita vera, è più grande di tutte le storture nelle quali, noi, concretamente la ingabbiamo, attraverso il nostro agire tante volte distorto. È una consapevolezza che avvertiamo dentro di noi, a prescindere dal fatto di essere o no credenti.
Che la vita ci trascenda, lo sperimentiamo concretamente in tante situazioni e risulta ancor più percettibile ogni qualvolta riusciamo a destarci dal sonno nel quale sovente ci accade di cadere e che ottenebra la nostra capacità di visione. La pienezza di vita la percepiamo come una chiamata che non siamo noi a darci; che ci precede e chiede “semplicemente” che noi rispondiamo. È ciò che ci muove nella ricerca della felicità, del senso dell’esistenza, nella costruzione di rapporti sereni e costruttivi tra le persone, nella ricerca di giustizia, di pace, di tutto ciò che chiamiamo bene. Solo che tante volte anteponiamo a questa formidabile chiamata, non già la nostra responsabilità, quanto piuttosto i nostri preconcetti, le abitudine, le paure che ci paralizzano, le verità parziali che ci siamo costruiti, le nostre visioni del mondo. E allora da viaggiatori ci trasformiamo in sedentari, più interessati alla difesa dello statu quo, che alla ricerca di quello che ci sta più avanti. Questo lo possiamo osservare nella politica che è diventata afasica; non sa più parlare alle persone, chiusa com’è nella difesa di se stessa; senza più capacità di visione e impossibilitata a proporre qualcosa di realmente nuovo che non siano stanchi e invariati ritornelli. Lo notiamo nella cultura, tante volte ripiegata su se stessa, quando non si fa ancella del potere di turno. Lo vediamo nella Chiesa che fatica a pronunciare parole di speranza. Da dove ripartire? Io penso che un nuovo inizio possa davvero avverarsi se tutti, rinunciando alla pretesa di sapere già quanto dobbiamo fare, ci mettiamo concretamente in ascolto di quanti sono oggi gli esclusi dalla vita a ogni livello. E non per erigerci a loro portavoce, ma con l’unico proposito di farci compagni di strada e di cammino. Sì, il cambiamento vero può venire solo da questo: dalla nostra disponibilità a guardare il mondo a partire dal loro sguardo. Solo così potremmo concretamente vedere le ingiustizie che a loro sono riservate; la mancanza di vita e di felicità cui li abbiamo costretti, il sistema di morte nel quale ci siamo cacciati. Non verranno dai tecnici le soluzioni in grado di cambiare la nostra società rendendola più a misura d’uomo, per quanto animati dalle migliori intenzioni, né dalle riforme elettorali e istituzionali che da decenni sono promesse e mai realizzate, ma da un ritorno alla capacità di tutti e di ciascuno di umanizzarci, sapendo riconoscere la dignità di ogni persona a partire dai più poveri e più emarginati, mettendo questi al centro del nostro agire, del nostro operare, del nostro amare. Amare che si concretizza nella capacità di discernere il bene dal male: quello che dà loro vita da quello che procura loro morte; non in astratto, ma nelle scelte concrete di ogni giorno, tradotte dai rapporti che con costoro intratteniamo e dalle scelte di politica economica e sociale che vengono fatte e alle quali sappiamo o meno opporci con decisione, con convinzione, quando non sono apportatrici di vita. Camminare con i poveri significa concretamente condividere la loro esistenza; le fatiche, le gioie, le speranze, le amarezze, in un rapporto di reciprocità non fittizio, credendo davvero che siamo un dono gli uni per gli altri e che assieme possiamo realmente costruire una società migliore; più umana, più vera, più vitale.