Mi è tornata prepotentemente alla memoria questa affermazione scultorea del compianto Silvano Fausti, contenuta nel suo libro Chiamati a libertà.
La trovo più che mai attuale e appropriata anche per confutare i vari sostenitori (al di là dei distinguo di maniera) della legge in discussione sulla (il) legittima difesa che, se approvata definitivamente, farebbe fare parecchi passi indietro al nostro Paese, aprendo la strada a ulteriori slittamenti verso derive liberticide. Premesso che nessuno mai ha messo in discussione il diritto legittimo a difendersi da eventuali aggressioni – il tema non è questo – è di tutta evidenza che in uno stato di diritto l’amministrazione della giustizia deve rimanere in capo allo stesso, pena tornare indietro di secoli; a tempi bui nei quali valeva la legge del più forte. Il fatto poi – ammesso che sia così – che lo stato nella situazione attuale appaia non sufficientemente in grado di garantire sicurezza ai propri cittadini, dovrebbe spingere gli stessi a richiederla. Ma non mi pare sia questa la ragione di fondo. È piuttosto un’altra. Si è fatta strada l’idea che la “roba” valga più della persona, tanto più se quella persona è per giunta un “delinquente”. Ancora, è invalso il principio che ciò che è “mio” è intangibile al punto tale che per la difesa di quello stesso “mio” possa in tutta tranquillità e coscienza anche ammazzare. Insomma alla base c’è stata una involuzione di carattere culturale; direi antropologico. È prevalso e prevale, in tanta parte di popolazione, una idea individualistica della vita e la cosa che fa immensa tristezza è che a questo tipo di visione si sono adattate anche forze politiche che per storia e tradizione dovrebbero proporre una visione diversa, alternativa del mondo, della vita, della storia. Ma questo vale non solo per il tema in questione ma anche per tante altre cose: dal lavoro alla scuola, dalla gestione del fenomeno migratorio al contrasto alla povertà e all’esclusione. Secondo Oxfam Italia, In Italia 1 persona su 4 è a rischio di esclusione sociale e 1 minore su 10 vive in povertà assoluta: non ha cibo a sufficienza, riscaldamento, abiti adeguati e mezzi per curarsi e istruirsi. Per contro abbiamo gli straricchi che nuotano in un mare di miliardi e mentre non si trovano i soldi per far fronte alle povertà intollerabili, con assoluta non curanza si spendono centinaia di miliardi in armamenti. Insomma navighiamo in un mare di ingiustizie e la politica piccina piccina non sa fare di meglio che rincorrere le sirene di quanti, magari per puro interesse elettorale, hanno buon gioco a far leva su paure vere o presunte della gente, per proporre misure, a loro dire volte a garantire una vita migliore ai buoni cittadini, dimenticando che buoni non lo siamo davvero nessuno. Tutt’al più un po’ più fortunati e che una società per essere coesa e pacifica deve avere in massimo grado la giustizia sociale, la cultura del rispetto reciproco e della legalità intesa come rispetto non formale delle regole, ma anche come capacità di assumerne l’osservanza per intima convinzione, avvertendole come valore e nella disponibilità a operare per cambiarle in meglio, là dove necessario, in una visione improntata al bene comune, non al mero interesse personale o di gruppo. Insomma una vita buona è possibile, a condizione che la desideriamo per tutti e non solo per noi. Tutto il resto è pura propaganda e menzogna. Illudersi che si possa vivere felici racchiusi dentro gabbie, magari dorate, anziché all’aperto, nella “convivialità delle differenze” come scriveva il vescovo Tonino Bello, è per l’appunto illusorio: falso, ingannevole.