Eccoli sbattuti in prima pagina per pochi minuti, per un giorno o due e poi ricacciati nel dimenticatoio, in quella assenza che tanto ci tranquillizza, quasi bastasse non parlarne per fare sì che non esistano.
E invece ci sono, eccome, un po’ ovunque nel mondo. Vite stroncate prima ancora che conoscano le gioie dell’infanzia e dell’adolescenza. Vite schiacciate, distrutte, represse, domate nell’indifferenza, quando non nella colpevole complicità di quanti potrebbero fare molto per impedire che il fenomeno dei bambini soldato fosse così pervasivamente presente e fiorente nel mondo. La guerra, ogni guerra, è la rinuncia ad essere umani. È una cosa lercia, sudicia, immonda. Tuttavia, pur proscritta, a parole, è ben nutrita da quanti hanno potere, interessi economici da difendere. Le ragioni di quanti non hanno potere non contano niente, sono carta straccia. Le sofferenze delle vittime di ogni guerra, sulla bilancia degli interessi geopolitici e di parte, pesano meno del costo di una pallottola. E nei summit dei grandi non entrano nei discorsi fatti a tavola conversando di niente. Per noi che abbiamo la fortuna di vivere in pace (diciamo meglio in assenza di conflitti violenti) è difficile, forse impossibile, raffigurarci l’orrore di chi è costretto, suo malgrado, a vivere in zone di guerra. E più ancora lo strazio, il dolore dei bambini ai quali è negata la vita il futuro e di quanti, invece che giocare, sono costretti ad imbracciare un fucile, ad uccidere per non farsi ammazzare. Per molti bambini soldato, arruolarsi in un gruppo o nell’altro è questione di sopravvivenza, di sentirsi un poco più sicuri che non farlo. Altri sono costretti con la forza e le minacce, oppure indottrinati da adulti che di uomini hanno solo le sembianze. E se in contesti di guerra la ferocia si è sempre dispiegata in lungo e in largo, e pertanto è da mettere in conto, ciò che più fa indignare è sapere che non sono pochi gli stati che vendono armi a paesi nei quali, l’impiego di bambini soldato, è risaputo e comprovato. Neppure l’Italia sfugge a questo. Commuoverci per un istante, come accaduto in questi giorni, apprendendo dai tiggì, o dalla stampa, la storia drammatica di un bambino kamikaze salvato in extremis non basta. Dobbiamo volere e fare di più, se non vogliamo finire a ingrossare le fila degli ipocriti che, versata una lacrime di circostanza, passano ad altro canale, ad altra pietanza.