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Ultima modifica Lunedì 11 Luglio 2016 18:33
11 lug 2016
200 PASSI DI UMANITÀ
Scritto da Piergiorgio |
Letto 9027 volte | Pubblicato in Il mio blog
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Ebbene, sì, li ho proprio voluti contare. È lungo poco più di 200 passi il corridoio che mi ritrovo a percorre, in un senso e nell’altro, in carcere, che porta dal cortile interno fino al centro dal quale si dipanano a raggera altri corridoi, compreso quello che porta all’aula nella quale ci troviamo come gruppo di redazione del giornalino DENTRO.

È un cammino fatto a volte da solo, altre in compagnia. Qualche volta quasi in religioso silenzio, altre volte intercalato da qualche saluto – buon giorno, buona sera, salve – propiziato da incontri casuali con operatori che svolgono servizio, in ruoli diversi, dentro il penitenziario. E non c’è giorno nel quale questo apparente e rutinario incedere non sia accompagnato da domande di senso: perché sono qui? cosa mi spinge a farlo? Perché questa struttura? queste mura? questo mondo di “dentro”? Qualcuno ha detto che il grado di civiltà di una società lo si misura da come tratta le persone più vulnerabili. Orbene il carcere in Italia, in senso genarle, non pare offrire un esempio dei migliori in tale senso. Le ragioni sono molteplici. Se ne è discusso e se ne discute da tempo, come si è fatto, ad esempio, in tempi recenti, nel corso degli  Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Il documento finale che ne è scaturito è certamente interessante. Purtroppo temo che non sia giunto e non giunga oltre il perimetro degli “addetti” ai lavori, e questo è un vero peccato. Ciò che si impone perché le cose cambino verso una prospettiva che porti realmente a un cambiamento di paradigma nella concezione della pena e della sua esecuzione, è il prendere coscienza, per dirla con Thomas Merton nella presentazione del libro Canto all’amore, del teologo e poeta Ernesto Cardenal, che «l’uomo è capace di umanità, lo voglia o no». E ancora che «i conflitti del mondo (e quindi anche tutto ciò che di negativo e sbagliato compiamo) non si devono alla mancanza di amore, ma all’amore che non riconosce se stesso, che non è fedele alla propria realtà. La crudeltà è l’amore senza meta. L’odio è l’amore frustrato». Ritengo che si possa percorrere strade diverse nella misura in cui tutti ci sentiamo interpellati dalla esigenza di curare le ferite prodotte da un amore frustrato attraverso un di più di amore, piuttosto che con la vendetta e la rivalsa. Ritengo vada in questa direzione quanto auspicato i due passi del documento richiamato sopra e che riporto.

Circa la dignità del detenuto. «Il rispetto della dignità della persona, non implica soltanto che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, ma impone che l’esecuzione della sanzione sia concepita e realizzata in modo da consentire l’espressione della personalità dell’individuo e l’attivazione di un processo di socializzazione che si presume essere stato interrotto con la commissione del fatto di reato. Deve farsi strada, quindi, l’idea che la pena debba consentire la ricostruzione di un legame sociale entro una dimensione spazio-temporale che metta il suo destinatario nella condizione di potersi “riappropriare della vita”, privilegiando l’impegno di responsabilizzazione invece del mero adeguamento alle regole. Il che induce a privilegiare il ricorso a misure di esecuzione penale non detentive (strutturalmente più idonee al perseguimento degli obbiettivi sopra indicati) e comunque a delineare, per l’ipotesi in cui il ricorso alla sanzione carceraria si riveli l’unica possibile nelle circostanze date, un modello di detenzione che, pur regolato dalle necessità di vita comune e di ordine, incrementi le possibilità di gestione del proprio tempo all’interno di uno spazio definito a partire dal muro di cinta e non dalla cella, dovendo questa essere considerata come mera camera di pernottamento».

Il documento ravvisa in un cambiamento culturale profondo le fondamenta sulle quali è possibile costruire modalità innovative di esecuzione della pena. «Un disegno complessivamente ambizioso e profondamente innovativo, quello che si è ritenuto di dover indicare; eppure, congenitamente fragile, ove non accompagnato e sostenuto da una diversa cultura sociale della pena. Quand’anche si riuscisse a realizzare, infatti, avrebbe vita stentata e, probabilmente breve, se non potesse affondare le sue radici in un sentire collettivo nuovo e sintonico. La cultura media italiana è tutt’oggi fortemente ancorata al modello sanzionatorio del carcere, sia per atavica adesione ad un’idea retribuzionista e afflittiva della pena, sia per la crescente insicurezza sociale che spinge a rinserrare entro le mura di un penitenziario gli autori dei reati, nell’illusione di rinchiudervi anche pericoli e paure. L'informazione e la politica, in gran parte assecondano strumentalmente questa mentalità e spesso contribuiscono al suo radicamento fra la gente, facendo leva sulle reazioni emotive, utili ad aumentare lettori, ascolti e preferenze elettorali, ma dannose ai fini della costruzione di una società realmente consapevole degli effetti delle scelte di politica penale. L’ansiogena enfatizzazione mediatica degli episodi di cronaca nera, la diffusa insicurezza sociale, l’interesse politico ad esibire una rassicurante “muscolarità” sanzionatoria, la conoscenza distorta della realtà e degli esiti dell’esecuzione carceraria da parte dell’opinione pubblica, costituiscono elementi di una sinergia perversa che hanno sinora sospinto il nostro Paese verso un sistema penale “carcerocentrico”, quando non hanno addirittura alimentato l’inconfessata convinzione che la protezione della società è tanto più efficace quanto più elevato è il grado di afflittività della pena».

Ecco, ritengo che i miei 200 passi, assieme a quelli di Giulio, ma anche a quelli di tanti altri che operano in carcere servano ad accrescere la voglia di umanità tra il dentro e il fuori, unico antidoto davvero efficace per ricreare comunità.

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