Sarà dovuto a qualche riflesso condizionato, oppure al fatto che i numeri primi non mi sono mai particolarmente piaciuti, mi suscitano sempre qualche sospetto, fatto sta che sapere che la nostra città di Trento si è classificata sul gradino più alto del podio per la qualità della vita,
secondo la classifica del Sole 24 Ore, non mi ha fatto urlare di gioia. Intendiamoci, non me ne cruccio di certo; ci mancherebbe, solo che vorrei sapere, al di là delle aride cifre che vengono snocciolate, quali siano i criteri, se ve ne sono, di senso, che concorrono a stabilirlo. In altre parole, non mi pare che bastino i parametri utilizzati, le statistiche inerenti affari e lavoro, ordine pubblico, densità della popolazione, tenore di vita, servizi e ambiente, tempo libero, per definire quanto sia alta la qualità della vita in un territorio. Soprattutto non mi convince il fatto statistico, che come ben sappiamo divide il bene e il male in parti uguali, affermando che ne siamo tutti toccati, quando in realtà, andando in profondità, vediamo che le cose stanno un pochino in modo diverso. Personalmente preferirei di gran lunga che risultassimo qualche gradino più in basso nella classifica nazionale, ma che il benessere, in senso lato, interessasse la totalità della popolazione, non solo una gran parte. È sempre quel “gran parte” o “maggioranza” a non convincermi. Sotto questa dizione sono sepolte persone vive, in carne ed ossa, che non possono assolutamente unirsi a pieno titolo alla nostra soddisfazione. Poco importa che siano nell’ordine delle centinaia o delle migliaia; sono out, come si dice, ovvero fuori. Fuori dal gruppo dei loro pari, cioè noi; ai margini. Contano poco a niente, o al massimo, quando va loro bene, sono i terminali di una carità un po’ pelosetta, anziché di giustizia ed inclusione. E non penso soltanto a quanti sono emarginati, ma anche alle tante persone (sappiamo quante sono?) che vivono in solitudine e faticano ad arrivare a fine mese. C’è un termine, un concetto, un vocabolo, chiamiamolo come vogliamo, che potrebbe fare davvero la differenza, , se solo ci applicassimo con maggior convinzione a coniugarlo nela vita concreta: condivisione. Mi si risponderà che è motivo di orgoglio, per noi, la grande diffusione del volontariato; ed è certamente vero, almeno in parte. Anche qui, di quale volontariato parliamo? È veramente e sempre quell’anello che unisce l’agio al disagio, oppure un donare dall’alto senza reciprocità e coinvolgimento di chi sta in basso? Non è davvero la stessa cosa. Il dibattito sulla qualità della vita, come sappiamo, è molto antico. Ne aveva parlato già Aristotele, per esempio, e prima di lui Platone. Si tende, generalmente, a ricondurre il tutto ad aspetti di carattere economico-sociali; dove gli indici economici, come è facilmente arguibile, sono i più semplici da misurare. Non così per quelli sociali, infatti, gli “specialisti” hanno difficoltà ad accordarsi circa i criteri di quantificazione di questi ultimi. Probabilmente un metodo di rilevazione che aiutasse a stabilire, leggere, quanto, ad esempio, sia diffuso e presente tra la popolazione di una città, di un territorio, il senso della centralità di ogni persona, l’attenzione verso i più deboli e sofferenti, il senso civile di responsabilità e partecipazione alla vita sociale, il rispetto per gli altri, il senso del servizio, il disinteresse, la gratuità nell’azione di servizio, la condivisione della propria esistenza, potrebbero darci una fotografia più nitida, più realistica e precisa di quanto sia realmente alta la qualità della vita. Utopia? Può essere, ma vale la pena tentare.