Le reazioni da parte dei pasdaran del Cavaliere alla notizia della conferma, in appello, della sentenza del Tribunale di Milano nel processo Mediaset, non meriterebbero alcun commento, trattandosi per gran parte di un copione ormai noto. Ormai appare abbastanza scontato che i supporter di Berlusconi, e lui stesso, abbiano della giustizia un concetto piuttosto fantasioso.
Viene da pensare, per dirla con Platone, che siano tra quanti condannano l’ingiustizia perché temono di esserne vittime, non perché abborrino di commetterla, diversamente non si capirebbe per quale ragione in ogni sentenza, a suo riguardo, che non sia di assoluzione vedano una macchinazione e gridino al complotto (dei soliti comunisti annidati nella Magistratura). Difficile, per l’uomo della strada, poter continuare a credere nelle istituzioni; nell’autonomia dei poteri dello stato, nel concetto di uguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge, quando da parte di quanti le rappresentano anziché esempi di rispetto delle stesse si assiste a commenti sbracati, volti a delegittimarle. «La legge è uguale per tutti.» affermava con profonda ironia, Marcello Marchesi, «Basta essere raccomandati». In un paese a democrazia normale, un politico che fosse condannato anche in appello in un processo a suo carico, si farebbe da parte; a prescindere. È doveroso riconoscere, ma questo dovrebbe valere per tutti, e così non è, la presunzione di innocenza a qualsiasi imputato, fino a sentenza definitiva. Questo vale anche per Berlusconi, il quale ha tutto il diritto di difendersi, nei processi, come qualsiasi latro cittadino, benché lui non sia un qualsiasi altro, non solo per il ruolo che ricopre, ma anche per i mezzi di cui dispone. Un qualsiasi altro cittadino, al suo posto, probabilmente starebbe già in carcere. Anche questa è una differenza che pesa e che agli occhi di tante persone, anche di tanti poveracci, che pur avendo commesso degli sbagli, magari da loro stressi ammessi, si sentono, giustamente, a mio parere, trattati come persone di serie C, non potendo contare su una difesa agguerrita e sui tanti espedienti su cui può contare il Silvio nazionale, per non sottostare ai rigori della legge. Nel nostro Paese è ormai invalso il principio, sostenuto da molti, purtroppo, che dal momento che l’imputato Berlusconi è a capo di un partito che conta milioni di voti, per questa unica ragione non può essere colpevole dei reati ascrittigli. Per una buona parte dell’opinione pubblica non contano i fatti e i riscontri portati in giudizio, infatti non li conoscono, contano le parole d’ordine; conta la simpatia, la propaganda di parte, le dichiarazioni a difesa e… i voti, appunto. È come stare dentro un grande fratello in cui contano le emozioni, non i ragionamenti. Pertanto sarà, chissà per quanto ancora a lungo, uno scontro tra tifoserie diverse, e si sa che nei confronti di una tifoseria non ha presa alcun pacato ragionamento; nessuna discussione di merito, nessun dissenso, per quanto motivato. Personalmente del destino politico di Berlusconi non me ne importa un fico secco, così come non mi importerebbe di quello di qualsiasi altro politico che fosse condannato sulla base di una sentenza frutto di un processo equo e giusto, come ritengo sia stato, fino a prova contraria, quello celebrato nei suoi confronti. Ciò che mi preoccupa è il degrado al quale è giunta la nostra società in tema di giustizia, di cui è uno specchio fin troppo chiaro la situazione che la descrive nelle statistiche al riguardo, nel sovraffollamento delle carceri e nel disatteso mandato costituzionale che contempla il recupero del condannato. Siamo ben lontani dall’essere quelle persone giuste – come affermava Kahlil Gibran – che sono tali perché si sentono a metà colpevoli dei misfatti altrui.