Li indossiamo in tanti, molte volte senza neppure accorgercene. A differenza di quelli dei cavalli, i nostri non sono di cuoio cuciti, sono costituiti da pregiudizi, ignoranza, disinteresse, dabbenaggine, individualismo.
Costa fatica e richiede capacità di giudizio, in situazioni complesse come quella nella quale stiamo vivendo, uscire da un certo conformismo, non adeguarsi al flusso della corrente, ritenere per buone spiegazioni facili, interessate, propinate da coloro che hanno tutto l’interesse a sostenere la vulgata che tende ad addossare la responsabilità del nostro star male ad altri che stanno peggio di noi. È sempre stato così nel corso della storia. Quando un nemico chiaro non esiste allora bisogna inventarlo. In questo sono molto brave le classi dirigenti; coloro che detengono il potere reale che non necessariamente, anzi oggi meno che mai, corrispondono ai detentori del potere politico. La loro colpa semmai, al presente, è quella di essersi prostituiti al potere di una economia che uccide. Ecco che allora, di questi tempi, un nemico facile da individuare e sul quale scaricare molte responsabilità sono i migranti visti e mostrati come invasori che rubano lavoro, ricchezza, ordine e tranquillità. Fatti di cronaca che in un contesto di relativa tranquillità e benessere, non solo materiale, sarebbero giustamente e adeguatamente inquadrati per quello che sono realmente, diventano, nella narrazione comunicativa il carburante con il quale alimentare sentimenti razzisti e xenofobi. Questi si nutrono al contempo di racconti che amano dribblare verità storiche spiacevoli di quando eravamo noi a migrare, ricamando miti di indefessi lavoratori apprezzati ovunque nel mondo e partiti con tutte le carte in regola anche quando eravamo respinti e disprezzati come i “maldetti” di oggi. I poveri di qualunque colore, specie quando appaiono sporchi e maleodoranti non sono mai seducenti. Li si vorrebbe invisibili quasi non avessero il diritto di esistere. I ricchi e benestanti, che appaiono gradevoli alla vista, anche quando a conoscerli da vicino risulterebbero ripugnanti, non saranno mai individuati dalla gran massa come i veri responsabili di tanta sofferenza che c’è ovunque nel mondo. Eppure l’equazione è tanto semplice da apparire perfino banale. Se la ricchezza presente nel mondo se la dividono in pochi, al resto della popolazione non rimangono che le briciole ed è del tutto normale che questi si scannino per dividersi quei pochi resti. Siamo come le galline che non vedono oltre il becchime sparso a terra per loro e non sapendo alzare lo sguardo verso chi lo sparge con parsimonia sul terreno, sgomitiamo a vicenda per un chicco in più, convinte che sia il modo migliore di stare al mondo. Se sapessimo alzare un poco lo sguardo e vedere oltre l’immediato interesse personale, se al centro del nostro interesse stesse la felicità di tutti e ciascuno, se ci interessasse davvero il dolore dell’altro (sapendo per altro che domani potrebbe essere il nostro) allora probabilmente troveremmo il coraggio di ribellarci alle infinite ingiustizie e sperequazioni esistenti e mandare a quel paese gli imbonitori di turno, quanti anche dall’alto del loro sapere pontificano a manca e a destra foraggiati da gettoni di presenza milionari e magari ci risolveremmo a dare più ascolto alla voce di quanti oggi non sono ascoltati perché ritenuti degli scarti.