Certamente in maniera diversa e con gradi di responsabilità diversa, ma ritenere che i colpevoli siano sempre e soltanto gli altri, mi pare davvero riduttivo e falso. Le guerre le decidono le élite politiche, economiche, militari, ma potrebbero ben poco che se non potessero contare sul sostegno diretto o indiretto dei popoli.
Se davvero fosse coscienza comune, diffusa, la consapevolezza che la guerra, ogni tipo di guerra è una cosa lercia, immonda, con ogni probabilità quanti ancora credono nei sacri valori dell’eroismo, della patria, della nazione, dovrebbero fronteggiarsi con arco, frecce e spade. In realtà siamo ancora in troppi a cedere che le armi e il loro uso possano essere la soluzione più adeguata, inevitabile, per dirimere le tante questioni, i conflitti che nascono e si sviluppano dentro le nostre società. Siamo tutti colpiti dagli orrori che ci vengono mostrati dai vari teatri di guerra oggi nel mondo: Palestina, Siria, Iraq, Ucraina, per citare i più noti e ci è del tutto facile, spontaneo, indignarci per quanto accade. È giusto, doveroso indignarci, prendere posizione, denunciare le ingiustizie che vengono perpetrate. La domanda è un’altra: se fossimo noi quelli coinvolti nei vari conflitti, da una parte o dall’altra, quale sarebbe la nostra posizione? Staremmo tra quanti, coerentemente con il nostro rifiuto della logica della guerra come strumento di risoluzione del conflitto aceterebbero di pagarne lo scotto, continuando ad opporci a ciò che oggi definiamo cosa aberrante, oppure cambieremmo immediatamente casacca, schierandoci con quanti imbracciano le armi, certi che quella sia la soluzione; che non ne esista un’altra, che il prezzo da pagare, altrimenti sarebbe troppo alto da sostenere? Trovandosi parte in causa in uno scenario di guerra, mica sarebbe poi così facile e agevole scegliere di non ammazzare per non essere a propria volta ammazzati. Ma prima ancora di giungere a tali scenari, quanto siamo consapevoli che le guerre s’innestano sovente (sempre?) sulle ingiustizie e che queste non nascono da un giorno all’altro come i funghi nei boschi, ma sono il risultato di processi più o meno lunghi. E se ne siamo coscienti, cosa facciamo concretamente per evitarle? Siamo davvero convinti, persuasi, della necessità di operare perché trionfi in ogni ambito la giustizia, e ancora, cosa facciamo nel nostro quotidiano per rendere possibile, per tutti, vivere dignitosamente, riconoscendo all’altro, al diverso da noi, la possibilità di esistere ed essere se stesso? Anche quando di quell’altro non condividiamo nulla? A cosa siamo disposti a rinunciare per preservare la pace e soprattutto cosa siamo disposti a fare perché la pace non sia solo un richiamo generico a volerci bene, ad evitare i drammi (dolori, sofferenze, morti distruzioni) che comporta ogni guerra? Fin tanto che ci correranno brividi di emozione lungo la schiena ascoltando inni nazionali marziali, ci glorieremo delle imprese eroiche dei nostri soldati e crederemo che, poiché il mondo è fatto in un certo modo, mica possiamo fare in pierini del mondo, imboccando strade nuove, anche se incerte e rischiose, secondo la mentalità prevalente, temo che non faremo grandi passi avanti. Continueremo a ridirci che ciò che accade nel mondo è assurdo, a piangere i morti ammazzati innocenti, e al contempo ad affinare le nostre capacità di procurare la morte.