Va be’ ci siamo anche divertiti dopo le analisi e i puntuali commenti dopo voto che seguono immancabilmente ogni tornata elettorale. Come non sorridere vedendo l’immarcescibile Ignazio nazionale farsi radere la barba in diretta nel salotto di Vespa?
Oppure sentendo l’ineffabile Iva affermare che si ritirerà dalla politica alla quale ha dato tanto senza ricevere alcunché in cambio? Epigoni di una realtà che vorremmo tanto avesse fatto il suo tempo. Naturalmente le cose che inquietano non sono queste; è del tutto evidente. Sono i tanti che non hanno votato, disertando le urne, rinunciando a contare e naturalmente quanti, seguendo le sirene ammaliatrici del momento, hanno espresso la propria preferenza per formazioni politiche che destano più di una preoccupazione. È ben vero che per quanto importanti, numericamente, i risultati conseguiti non sono maggioritari in Europa, però non c’è da stare tranquilli. I germi di una involuzione xenofoba, razzista e fascista ci sono tutti. Sottovalutare quanto è avvenuto con queste elezioni sarebbe da irresponsabili. Che nei momenti di crisi, e questo è uno di quelli, la gente, soprattutto quella più facilmente vulnerabile, influenzabile, possa farsi trascinare da slogan di facile presa, ad effetto, è risaputo. Da qui deriva il dovere per le classi dirigenti democratiche degne di questo nome, intervenire prima che l’epidemia dilaghi e diventi ingovernabile. Sono molti i mea culpa dei quali dovrebbero accusarsi quanti hanno guidato le sorti dell’Europa in questi ultimi anni; per quanto hanno fatto di sbagliato, riservando più attenzione e tempo alle banche, alla finanza, ai mercati che non alle persone, ma anche per quanto avrebbero potuto fare e non hanno fatto in ordine allo sviluppo politico e sociale atteso, necessario, e mai davvero perseguito. Sappiamo bene quanto profondi e diffusi siano gli egoismi di gruppo e nazionali e quanto difficile sia superarli. Quanti rivendicano un ritorno alle sovranità nazionali; quanti rimpiangono il passato, le piccole patrie, i localismi gretti e chiusi in se stessi, che lo sappiano o no sono fuori dalla storia. Ma anche quanti si attardano in giochi di piccolo cabotaggio per non affrontare le vere sfide globali e non hanno il coraggio di percorrere strade nuove nel segno della globalizzazione della solidarietà e della giustizia sociale, sono ugualmente colpevoli. Forse anche più dei primi, perché in definitiva questi ultimi sono soltanto da compiangere e da compatire, oltre che da combattere sul piano dei valori e delle prospettive future, gli altri portano alla responsabilità di attardarsi a passare il guado che la storia incalza a varcare, pena l’impantanarsi in un vicolo sena più vie d’uscita. Davvero è il tempo del coraggio, delle scelte decisive senza più allibi per nessuno. Se vogliamo che la nuova Europa sia l’unione dei popoli e non delle nomenclature, abbiamo bisogno di maggior democrazia, di giustizia sociale, di equità, di lavoro, di inclusione sociale, di diritti. Abbiamo bisogno di solidarietà e fraternità coniugate nella quotidianità, capaci di dare un volto umano all’economia e un futuro di pace e prosperità alle nuove generazioni. Se il cammino appena iniziato del nuovo parlamento europeo non saprà farsi interprete di queste attese, che sono quelle che in modo anche distorto, salgono da ogni parte delle nazioni aderenti, il sogno di un’Europa unita svanirà nel breve spazio di un mattino lasciando soltanto macerie.