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09 mag 2014
GESUITI E CACICCHI
Scritto da Piergiorgio |
Letto 3857 volte | Pubblicato in Il mio blog
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Con il termine Cacique (o Cacicco) si definiva il capo di alcune comunità tribali in America latina. Viene ancora usato in Messico per indicare il capo del villaggio. Di seguito una lettera dell’amico p. Fabio Garbari che scrive agli amici dalla Bolivia.

Carissimi,

quando sull'altopiano andino, verso la fine del 1600, il Cacique aymara Fernando Guarachi disponeva delle sue proprietà e del suo patrimonio per la costruzione della sontuosa chiesa del Beneficio Ecclesiastico de Jesús de Machaca; nella selva amazzonica 3.500 metri più in basso, piccole spedizioni di due, tre gesuiti si facevano strada tra la vegetazione, navigando in canoe per i fiumi della regione e individuando nella pianura della foresta, le zone orograficamente più alte, al sicuro dalle grandi innondazioni che periodicamente invadono l'Amazzonia boliviana. Il Cacique aymara di Jesús de Machaca era tributario del Vicerè di Spagna e organizzava la mita per le miniere di Potosí: si incaricava cioè di mandare ogni anno gente della sua giurisdizione, a Potosí (700 Km più al sud) perché lavorassero nelle miniere di argento in condizioni infraumane, garantendo quell'economia di cui Spagna ed Europa avevano bisogno. Il Vicerè di Spagna gli assicurava potere su tutta la regione, a condizione che lui si preoccupasse dell'amministrazione della religione cristiana convocando, proteggendo e assistendo personale religioso, e dell'organizzazione della mita organizzando le spedizioni di mitayos a Potosí. I gesuiti, invece, avevano vinto una specie di scommessa col Re di Spagna: quelle regioni dove loro avessero aperto delle missioni, sarebbero state affidate direttamente a loro, senza l'intermediazione di un vassallo politico. Nella selva amazzonica gli abitanti erano dispersi in piccoli clan familiari divisi da grandi distanze geografiche, linguistiche e culturali ed erano quindi facile preda degli avventurieri che cominciavano ad entrare fin lì a caccia di schiavi. Ecco quindi la sfida per i gesuiti: organizzare centri abitati dove la gente si radunasse e potesse proteggersi dagli abusi esterni. Perché questo fosse possibile occorreva creare uno spazio dove la gente indigena si sentisse bene, vivesse a gusto, conservasse l'essenza della propria identità e della propria cultura. E la proposta gesuitica cominciò a fiorire nella selva e la gente accorreva alle missioni fondate sulla base di uno schema studiato, sperimentato e verificato da questi strani personaggi che camminavano per la selva con veste talare nera, navigavano, cacciavano, suonavano, celebravano... erano ingenieri, falegnami, esploratori, muratori, musicisti, agricoltori, tipografi, allevatori, medici, cacciatori, linguisti: maestri ed alunni. La vita nelle missioni trascorreva in una mezza giornata di lavoro comunitario che permetteva il sostento economico della missione, mentre il resto del tempo era dedicato a celebrazioni festive e popolari dove si usava il linguaggio e la cultura della gente del posto mescolandolo con il linguaggio e la cultura dei religiosi europei. Si organizavano così concerti, rappresentazioni religiose, feste e autosacramentali, degni delle corti europee di allora, realizzati però solamente per il diletto e la devozione degli abitanti della missione. Gli strumenti a fiato e percussione propri delle tribú indigene si intrecciano così a violini e violoncelli, le vesti liturgiche canoniche alle piume variopinte delle maschere cerimoniali indigene, il latino alle le varie lingue locali, le austere celebrazioni liturgiche romane agli autosacramentali semplici e pittoreschi dove la gente narrava nella propria vita la storia divina della salvezza Tutto questo ha dell'incredibile, però si perde nella storia coloniale dei secoli scorsi e resta come un episodio morto quasi sul nascere a causa del pronto intervento degli Stati europei che si preoccuparono di far espellere i gesuiti prima dal Portogallo (Brasile) e poi nel 1767 dalla Spagna (Ispanoamerica con le missioni gesuitiche) ed infine di far sí che il Papa sopprimesse la Compagnia di Gesù. Anch’io credevo che di questa storia straordinaria fosse rimasto vivo solo il ricordo di un fallimento, finché arrivai a San Ignacio de Mojos, alla vigilia di Natale dell'anno scorso. Cambiai gli antichi feudi del cacique Fernando Guarachi, per le altrettanto antiche glorie delle missioni gesuitiche. E scoprii con gran sorpresa che il paese di San Ignacio de Mojos (fondato come missione gesuitica nel 1689 a 15 kilometri dall'insediamento attuale, del quale si ricorda ancora il primo gran Casique Sebeyo con il suo secondo Yamacale e rifondato nell’attuale ubicazione nel 1749 a causa di crededenze e miti indigeni) continua radicando ancor oggi la propria vita in quei valori nati dall’intreccio durato circa ottant'anni, tra la identità indigena e quella dei tre strani personaggi che vivevano nella selva con veste talare nera. Intreccio che si conservò poi autonomamente contro venti e maree per altri 250 anni, per arrivare fino ad oggi. Ed oggi continua l'intreccio di vivaci celebrazioni indigene con austere liturgie cattoliche, di originali ed autoctoni strumenti a percussione ed a fiato, con sofisticati violini e violoncelli costruiti qui da liutai del posto, di maschere rappresentanti la fauna del posto con casule, tonache e stole di rito cattolico. Però l'intreccio più grande e sorprendente è quello che la gente ha realizzato nella propria vita con la presenza viva di Cristo, con il Cristo del Vangelo che accompagna, capisce, dà vita, insegna e perdona. Nelle celebrazioni si intreccia la storia della salvezza vissuta e sperimentata qui in Mojos fin da prima dell'arrivo di quegli strani personaggi stranieri, con la storia della salvezza del popolo di Israele e della chiesa primitiva. È un'esperienza che non avrei mai pensato di poter vivere e che rivela che tutta la storia, lo spazio ed il tempo sono nelle mani di Dio. Arrivare parroco qui è stato come ricevere la staffetta non dal mio immediato predecessore, ma dall'ultimo gesuita, cacciato dal re nel lontano 1767 e morto durante il viaggio per la foresta, prima di poter arrivare al porto di Lima destinato all’esilio negli Stati Pontifici. L'organizzazione economica sì che è scomparsa completamente: il boom della gomma alla fine dell'ottocento e poi il boom del legname ed ora il boom dell'allevamento di bestiame (per certo introdotto nella regiona dai gesuiti in un'epica spedizione nel 1600) hanno alterato tutti gli equilibri economici, chiamando gente da fuori, comprando e vendendo terre, bestiame e foresta che fino allora erano patrimonio comune e lasciando il mondo indigena nell'ultimo anello della catena economica della regione. L'anno scorso la Unesco ha dichiarato patrimonio immateriale dell'umanità la serie di celebrazioni che San Ignacio de Mojos realizza ogni anno in occasione della propria festa patronale. Personalmente non conosco ancora queste celebrazioni, però ho partecipato in quelle del Natale e della Pasqua e posso testimoniare che si tratta di qualcosa di incredibile. Ed ora, quando penso al Cacique aymara Fernando Guarachi, vassallo del Virrey, che per mantenere la propria signoria sulla regione accettò in parte lo sfruttamento degli abitanti, mimetizzandolo con il vessillo della croce e occultandolo in una splendida chiesa coloniale frutto dei suoi guadagni, capisco perché fra la gente dell'altipiano andino è ancora evidente e dolorosa una ferita mai guarita. Capisco perché, in quelle terre, due culture continuano a scrutarsi minacciose invece di intrecciarsi in qualcosa di piú bello e piú completo. Comprendo perché lassú sull’altopiano, la Chiesa stenta ancora a trovare il suo posto e la gente a trovare il suo posto in lei. Cacique aymara Fernando e Cacique mojeño Sebeyo: un nome europeo ed un nome indigena, simbolo di due approcci diversi fra due mondi. Approcci diversi che dopo più di 300 anni continuano producendo frutti diversi. Un grande abbraccio a tutti Fabio

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