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Scritto da Piergiorgio |
Letto 3743 volte | Pubblicato in Il mio blog
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L’appetito vien mangiando, recita un vecchio adagio. Pare faccia al caso nostro. Come interpretare diversamente il dibattito in corso, tra manovre economiche annunciate, proposte, ritirate e poi ancora rilanciate, per essere nuovamente ridiscusse e ripresentate? Talvolta mi sorge il dubbio, credo non infondato, che contrariamente a quanto si afferma, dietro il gran trambusto di parole si nasconda un vuoto di pensiero, di visione. Difficile sottrarsi alla sensazione che ci sia chi ci marcia, speculando cinicamente su questioni che richiederebbero ben altra levatura di pensiero e di proposta, se non altro per rispetto verso quanti la crisi la stanno già pagando e per coloro che la pagheranno cara anche nel prossimo futuro.
Il cittadino comune non può che rimanere disorientato, sconcertato, di fronte a tanto bailamme. Si ciancia di miliardi da recuperare quasi fossero bruscolini; di debito pubblico da ripianare, come di cosa piovuta improvvisamente dall’alto. E a chi ha fatto lealmente, sempre e soltanto il proprio dovere, non si fornisce alcuna spiegazione, che chiarisca il perché dell’attuale situazione. Da giorni ormai siamo bombardati da un unico messaggio: la crisi c’è, è profonda, rischiamo il baratro, dobbiamo agire rapidamente e con interventi strutturali in grado di traghettarci… verso dove? A questa domanda pare non esserci risposta. O per lo meno io non riesco a coglierla. I vari provvedimenti che la mattina sono presentati, il pomeriggio modificati, per poi essere nuovamente cambiati a sera, mi pare siano tutti dello stesso segno: fare cassa in modo rapido e sostanzioso. Quasi che l’unico problema risieda nella necessità di dare risposte convincenti ai mercati, alle istituzioni internazionali, ma senza alcun riferimento alla vita concreta delle persone: ai bisogni, alle necessità della gente. Quello che più mi fa arrabbiare, sono i sermoni di quanti, da pulpiti edificati sul tornaconto personale, pontificano di bene comune. Sappiamo bene quanto questo argomento non goda per niente di una definizione condivisa. E allora come uscirne? Forse iniziando con l’ammettere, con onestà e apertamente, che gli interessi in gioco sono davvero tanti, e che ogni parte cerca di tirare acqua al proprio mulino. Sarebbe già un passo avanti notevole. Contribuirebbe, forse, ad aiutare i più sprovveduti ad aprire un po’ più gli occhi, a farsi un’idea più realistica dei giochi di potere in atto, rendendosi più autonomi nel giudizio, anche rispetto alle forze politiche alle quali eventualmente si è dato il proprio consenso, magari rinunciando a restar svegli e critici il tanto da permettere di rimanere cittadini sovrani, anziché semplici sudditi. Verso la politica in generale, a quanto affermano i vari sondaggi d’opinione, i cittadini italiani nutrono sempre meno fiducia; immagino non sempre a torto. Non sono tra quanti amano fare di tutta l’erba un fascio. Ritengo non siano poche le persone che operano nel campo con onestà e competenza, pur tra le legittime differenze di orientamento e di casacca. C’è però una cosa che proprio non mi convince, neppure tra costoro: l’ignavia che pare, talvolta, li contraddistingua. Mi spiego con un esempio. Tutti, senza nessuna distinzione, convengono, (almeno a parole), chi per interesse contingente, chi probabilmente per un sentire sincero, che i costi della politica hanno raggiunto un tetto di spesa non più sostenibile e nemmeno giustificabile. Tutti però rimandano la soluzione a riforme da attuare in un futuro più o meno prossimo. Ora non c’è dubbio alcuno che determinati interventi richiedano delle riforme che non si possono improvvisare. Ma questo significa che nel frattempo non si può far proprio niente? Non sarà che anche a questo riguardo vale il detto: tutti desiderano il paradiso ma nessuno vuole andarci per primo? Perché, ad esempio non iniziare con il tagliarsi autonomamente, della percentuale che credono, ma che sia significativa, gli stipendi o altri benefit e devolvere l’equivalente a favore di qualche categoria tra le più svantaggiate? O a sostegno di qualche progetto di utilità pubblica? Certo, non servirebbe a risolvere alla radice alcun problema, però sarebbe il segno concreto di una diversità non solo enunciata, ma praticata. Immagino quale possa essere anche l’obiezione. Ma questo è populismo. Perché, il parlare di cose da fare, aspettando Godot, a che assomiglia? Sarà perché provengo da una storia nella quale si è sempre privilegiato il fare, alle analisi, pur di rispondere a qualche bisogno concreto e impellente di chi stava più male, però ritengo che se la politica vuole davvero tornare ad aver un senso e un seguito, debba partire proprio da qui; uscire dalle segrete stanze; farsi testimonianza, non solo del singolo, parlare il linguaggio della gente, di quanti stanno davvero male e ai quali possono giungere, non i proclami, ma quanto si fa concretamente.

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