«Che ci stiamo a fare qui?» Assieme al dolore, sincero o di circostanza, per la perdita della vita di quattro dei nostri soldati in Afghanistan, anche la domanda del sopravvissuto riportata dagli organi di stampa, dovrebbe interrogarci. Chiederci se siamo consapevoli o meno che in realtà, al di là di quanto ufficialmente si voglia far credere, in quel paese stiamo combattendo una guerra. Una guerra nella quale ci hanno trascinato quanti ci hanno persuaso che era l’unico modo per combattere il terrorismo.
Che lo si voglia o meno, questa è la realtà che ci raccontano i fatti; fatti che purtroppo assumono particolare rilevanza quando a cadere vittime sono i “nostri” ragazzi. Ma anche dall’altra parte, per quanto condannabili possano essere le ragioni che spingono a combattere, c’è gente che parlando dei propri caduti, usa lo stesso pronome “nostri”. Come uscirne? Finché rimarremo a contenderci torti e ragioni, perseguendo l’obiettivo di volerli dividere con un taglio netto, conseguiremo soltanto un’illusione. E certo le armi non sono il migliore dei viatici. Quello che possono costruire le armi sono soltanto rancori; parziali giustizie e riparazioni di qualche torto, forse. In tanti casi soltanto vendetta. Allora la strada da intraprendere è quella faticosissima della riconciliazione, che passa attraverso la verità, la riparazione di tutte le ingiustizie, il riconoscimento delle ragioni di tutti, soprattutto delle vittime; di tutte le vittime. E infine il riconoscere che la vita di ogni persona vale più di qualunque altra ragione: ideali, principi, leggi e regolamenti. La conversione, il riporre la spada per primo è onere del più forte. Soltanto questa intrapresa, ne svela la vera grandezza.