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La notizia, come tante altre del medesimo tenore, sono di quelle destinate a non “fare” notizia. Si perderà in qualche trafiletto di quarta pagina, tra le news che durano lo spazio di pochi minuti, soffocata dalle baggianate a raffica del “nostro” premier, offuscata dalle iniziative in agenda per rilanciare i provvedimenti ad personam per il capo, spenta dai ringhi rancorosi dei suoi compari di merenda che sanno profferire soltanto anatemi nei confronti dei migranti. E loro erano migranti. Sono morti in mare al largo delle coste libiche, aggiungendosi alle migliaia che giacciono in fondo a quel mare che potremmo chiamare ormai coemetrium nostrum, considerato l’alto numero di vittime che ha inghiottito, a partire dagli anni Ottanta.
La vita ha il volto del piccolo Yeabsera, che significa dono di Dio, in questi giorni di violenza e di morte che caratterizzano la missione alla quale partecipa anche l’ Italia. Giustificata, inevitabile, doverosa, o al contrario sbagliata, comunque la si voglia considerare l’azione intrapresa dai così detti “volenterosi”, chiamiamola con il nome che le si addice: guerra. E la guerra, semmai possa avere una sua razionalità, è sempre strumento di morte. È pertanto singolare che per essa non si lesinino i mezzi: economici, tecnici e persino in vite umane. Per la difesa e la promozione della vita delle persone, per il loro benessere, al contrario, si accampano mille giustificazioni per non farsene carico; e sempre con argomenti che, a prima vista, possono apparire perfino convincenti.
Confessiamolo: la violenza ha un suo sottile fascino che permea le coscienze di molti, anche perché, molto spesso, della stessa, ne abbiamo un racconto puramente astratto che si ferma sulla porta di casa e si materializza attraverso il televisore fra uno spot e l’altro. Non ne abbiamo esperienza diretta, per nostra fortuna. Nel migliore dei casi è oggetto di dibattiti da salotto come avviene in questi giorni in tutti i talk show, al bar o fra gruppi di amici. L’odore acre della polvere da sparo, gli incendi, gli squarci inferti alle abitazioni, le ferite mutilanti dei corpi, lo strazio delle carni, sono tutte cose che non sperimentiamo di persona.
Confesso che vederli volteggiare nel cielo come degli splendidi rapaci, mi affascinano enormemente e immagino che volarci sia cosa emozionantissima. Ma la mia ammirazione finisce qui. Se penso che sono strumenti di distruzione e di morte, mi si stringe il cuore soltanto a pensarci. I caccia militari che da ieri sorvolano in missione di guerra i nostri cieli, prima di scaricare i loro ordigni di morte dal cielo libico, rappresentano la contraddizione vivente nella quale noi uomini del XXI secolo ci ritroviamo. Si doveva intervenire in Libia? Penso e immagino di sì. Il modo con il quale lo si sta facendo, è davvero l’unico possibile?
Confesso che faccio una certa fatica a unirmi ai festeggiamenti per il tuo 150° compleanno, caro Paese mio. E non perché non meriti essere festeggiato. Sono orgoglioso di essere italiano, ma allo stesso tempo non mi sento né mai mi sono sentito nazionalista. Al contrario, amo questo mio paese che mi ha dato i natali, proprio perché ho ricevuto da tanti suoi spiriti illuminati una coscienza mondiale e di appartenenza all’intera umanità. Amo il tricolore, ma non quello delle parate militari e neanche quello strumentalizzato in uso sui campi di calcio. Amo i colori della bandiera italiana perché mi ricordano persone e cose che l’hanno fatta bella nel corso degli anni e tutt’ora la rendono attraente per tanti nel mondo.
Definire terrificanti le immagini che ci raccontano del terremoto e dello tsunami che ha colpito il Giappone, penso sia ancora riduttivo. Talvolta ci mancano perfino le parole per poter definire in modo appropriato quanto accade, ed è difficile sottrarsi a domande profonde di senso circa il vivere su questo pianeta. Forse dobbiamo ammettere umilmente, con il sindaco di Hiroshima, Tadatoshi Akiba, che davvero non siamo sovrani sulla Terra. Riconoscere questo non significa abbandonarsi a un sentimento di tipo fatalistico, ma molto più semplicemente imparare a guardare con occhi meno presuntuosi alla natura e alle necessità che da uno sguardo meno rapace nei suoi confronti ne discendono.
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