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29 mag 2018
TEL ABBAS (Libano)
Scritto da Piergiorgio |
Letto 2959 volte | Pubblicato in Il mio blog
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Da un amico ho ricevuto queste note di diario di alcuni giorni trascorsi in un campo profughi, di siriani, in Libano. Desidero condividerle perché non possiamo dire: non sapevo. Purtroppo ho dovuto togliere le fotografie che corredavano lo scritto, per un problema di impaginazione.

sabato 5 maggio

Una donna, medico di base in provincia di Vicenza, è stata pochi giorni fa al campo di Tel Abbas dove siamo diretti e avvisa: “pensavo che i problemi di salute prevalenti fossero legati a patologie da malattie (infettive, …) e invece sono sofferenze da tortura e traumi da guerra”.

Arriviamo a Beirut nel pomeriggio. Domani, dopo nove anni, ci saranno le elezioni presidenziali. Militari in camion, jeep, mezzi blindati e anche carri armati presenti pressoché ovunque.

Non ci sono bus o mezzi pubblici e raggiungiamo Tripoli (una ottantina di km a nord) con un furgoncino van da una quindicina di posti stipati che vengono chiamati service . Le donne in abiti più tradizionali, spesso non montano o fanno spostare le persone per evitare di sedersi vicino a uomini, specialmente se stranieri.

Si dice che ieri ci sia stato un morto a Tripoli e si sono sentiti spari in città. Tripoli appare ancor più presidiata dai soldati. Nella piccola piazza/rotatoria dove dobbiamo trovarci con i volontari ci sono 5-6 pattuglie di militari con i loro mezzi; vicino a noi un soldato sopra il mezzo blindato sorveglia la piazza con una mitragliatrice.

Uno dei volontari dell’operazione Colomba  ci dice che l’esercito è ritenuto dai libanesi una sorta di riferimento di equilibrio delle tensioni esistenti.

Ci informano che da giovedì scorso al prossimo martedì ci sarà coprifuoco in tuta la zona dove saremo: nessuno dei siriani potrà uscire dai campi profughi e muoversi, pena l’arresto in fragranza. Lo stesso varrà a sud, per bloccare i palestinesi ospitati in Libano.

Su una vecchia Mercedes che fa da taxi informale ci dirigiamo verso il campo di Tel Abbas. Attraversando il paese, ci vengono mostrati una serie di garage di case libanesi che sono stati affittati ai siriani che possono permetterseli per non dover stare nelle tende del campo. Ogni garage ospita una famiglia, quasi sempre dai 5 ai 9 figli, e costa almeno 100 dollari al mese.

Siamo a 5 chilometri dalla Siria, il profilo dei monti che segnano il confine è a portata di mano.

Al campo ci aspettano, sono sempre contenti e orgogliosi che qualcuno venga per loro. Il ‘capo campo’ ci aspetta da più di un’ora per la cena nella sua dimora , il garage di una casa mai finita di costruire (150 dollari al mese), dove abita con la numerosa famiglia. Noi tre dormiremo nella tenda lasciata libera da un suo figlio andato a trovare la madre (prima moglie del padre) per alcuni giorni. Le tende sono dei parallelepipedi di 3-4 m per 4-5 m. C’è una stuoia sul pavimento di cemento, tre materassini leggeri di gommapiuma con qualche coperta per farci dormire, una lampadina appesa la centro, una piccola vecchia tv nell’angolo e qualche presa elettrica volante.

Un divisorio ci separa da un piccolo spazio dove c’è un lavandino e uno scaffale con stoviglie. Da lì una sorta di porta malmessa si apre sulla turca vicino alla quale c’è il rubinetto dell’acqua proveniente da una delle cisterne esterne, un secchio e 40-50 cm di canna di gomma per (cercare di) lavarsi… A fianco della stanza principale dove dormiamo, ma sull’altro lato, un’altra porta posticcia si apre su un piccolo magazzino di cose dei proprietari: un po’ di coperte, alcune scarpe e altro…

La corrente (a pagamento come l’acqua, per noi non potabile) spesso viene interrotta e si deve spostare una leva per aprire il contatto con il generatore.

La struttura della tenda è di legno con pannelli ricoperti di teli plastici all’eterno e con teli termoisolanti all’interno; su un lato, in alto, si vede il foro per il tubo di scarico di una piccola stufa per l’inverno.

Per ogni tenda si devono pagare al proprietario libanese del terreno 40-50 dollari al mese, più le spese per corrente, acqua… La gente si indebita, pochi lavorano come muratori o nelle coltivazioni agricole: un adulto viene pagato 1,5 o 2 dollari al giorno e spesso alla fine non ricevono neanche quelli.

Il mese scorso, improvvisamente sono arrivate due grosse jeep militari cariche di soldati libanesi che hanno fatto una violenta irruzione nel campo. Soldati armati in tutto il campo, bambini spaventati, adulti terrorizzati. "Dovete togliere queste due tende entro due giorni, o le distruggeremo". I volontari non sono riusciti a farli ragionare, solo un rappresentante del Comune fatto intervenire nei giorni successivi è riuscito a stoppare la decisione, ma a condizione che venga costruito un altro muro attorno al campo, perché la vista dei profughi disturbava il paesaggio di qualche abitante libanese che conta. "Qui non abbiamo altro sostegno se non il vostro", hanno detto i siriani ai volontari.

Dalle 21 alle 24 cena per noi con tutti i volontari: ottima, ma sapere che loro si privano delle poche cose che hanno per l’ospitalità…

Il figlio ha un gomito sempre gonfio e difficoltà di torsione della mano destra, chiede una visita medica; lui al momento non lo dice, ma ci dicono che è un segno di tortura nelle carceri siriane.

Alessandro, che coordina i volontari presenti (quasi tutti 23enni che sanno a sufficienza l’arabo, molti lo sanno proprio bene), ci dice che nessuno di questo campo è nelle condizioni di poter tornare in Siria. Vengono da Homs, Aleppo, Raqqa, Damasco… e là troverebbero tutto distrutto e anche il rischio di essere trattati come ribelli, oppositori o sfuggiti al servizio militare: carcere, maltrattanti e torture…

Ci raccontano che da pochi giorni sono arrivate numerose famiglie da una zona di Homs che era una delle ultime enclavi in Siria in mano alle milizie ribelli. La conquista del territorio da parte del regime e dei suoi alleati ha costretto molti civili, musulmani sunniti, alla fuga per non subire persecuzione o violenza. Arrivano con occhi scavati, persi, di chi ancora non si rende conto del luogo in cui è finito. Per arrivare molti di questi hanno passato la frontiera passando dalle montagne della valle della Bekaa (Libano orientale); gli ultimi arrivati hanno pagato un totale di 2.000 dollari ai contrabbandieri per arrivare.

Durante la cena ci parlano anche delle aggressioni che qui ogni tanto i profughi subiscono da libanesi, anche armati: l’ultima pochissimi giorni fa, senza motivo, dopo una partita di calcio…

Ci mostrano anche la piccola scuola di legno che a inizio anno è stata distrutta: il tetto e il muro della scuola bruciati questo inverno da mano dolosa, probabilmente appartenente a mafie locali che sfruttano i rifugiati. Un’organizzazione straniera si è impegnata a ripristinarla questa estate.

Dal 2015, il Governo libanese ha proibito ai rappresentanti dell’Alto commissariato per i Rifugiati di censire i profughi che entravano nel Paese. Per questo il loro numero si è ufficialmente fermato al milione (la popolazione libanese è di circa 4 milioni). Ma i siriani potrebbero essere oltre il milione e mezzo, forse due.

domenica 6 maggio

L’uomo ‘stomizzato’ per il quale abbiamo portato alcune scatole di sacche di ricambio ha subito un trauma profondo e una grave ferita allo stomaco causata da un’esplosione durante il conflitto. Il figlio, in quell’esplosione è morto. Lui ha trovato il video su youtube che mostra la morte del figlio e lo riguarda ogni giorno…

Al campo un altro uomo manifesta crisi epilettiche anche molto violente: è così dopo avere subito torture con cavi elettrici; ha inoltre diversi punti rossi di punture subìte, non si sa di che cosa...

Un altro ha delle ferite alle gambe, sempre dovute a tortura, ma ai rappresentanti ONU ai quali era stato segnalato appena arrivato ha dichiarato di aver avuto un incidente per paura di venir segnalato come ribelle.

La famiglia che ci ha voluti ospitare a colazione (con di tutto…) viene da Aleppo, hanno visto la loro casa distrutta dal bombardamento. Sono in lista per un corridoio umanitario verso la Francia, forse partiranno a fine mese (ancora non lo sanno, si aspetta ad essere certi che potranno partire). Il padre racconta che un missile li ha fatti restare senza nulla e non sapevano dove andare. Quando il missile è caduto sulla casa erano a pochi metri e nella confusione due figli li hanno lasciati indietro e sono dovuti tornare a prenderli mentre un altro di 6 anni è scappato dalla parte opposta rispetto al resto della famiglia e ha vagato da solo per due giorni prima che lo ritrovassero.

“Avevamo dei soldi, ma non c’era nulla da comprare; niente corrente elettrica e niente acqua…”

Più tardi andiamo in visita a una giovane donna con quattro figli piccoli. È forte, energica ed intensa: non teme di parlare e di guardare negli occhi: su di lei tutto grava ma spesso sorride o scherza, esprime bellezza.   Suo marito ha lo sguardo fisso: dei disturbi mentali, in passato anche aggressivi, conseguenti alla guerra hanno richiesto terapia sedativa con farmaci prescritti dalla sede di Medici Senza Frontiera della zona. La figlia maggiore, 10 anni, ha una piccola scheggia di bomba nel cuore che non può essere operata perché troppo rischioso. L’ultima figlia l’ha dovuta partorire con tutti gli ospedali della zona bombardati, il suo taglio cesareo è stato fatto in un ospedale da campo tra i polli che giravano…

Nei giorni successivi la vedremo venire alla tenda dei volontari al mattino per bere un tè e fare due parole con qualcuno (lo vediamo fare solo a lei).

Ci spostiamo, sempre assieme a un paio di volontari che sanno l’arabo, nel campo confinante col nostro: è un campo abitato da gente, se possibile, ancora più povera. Non sempre il proprietario lascia entrare i volontari (si deve passare davanti a una sorta di casetta all’ingresso che lui presidia), dipende da umori e tensioni che lui valuta. Oggi c’era già accordo perché si andasse a visitare alcune situazioni e ci fa passare senza difficoltà. La famiglia più povera di tutte abita nell’ultima tenda-baracca, molto precaria. Il padre parla male, ha un disturbo al linguaggio e psichico: è scattoso e più volte si alza arrabbiato a scacciare i bambini che si affacciano per vedere e sentire cosa ci diciamo… Ci sono 2-3 altri giovani adulti, probabilmente parenti.

Un figlio offre a tutti il consueto bicchierino di tè bollente, aromatizzato e zuccheratissimo (tutti i siriani continuano a berne, forse questo anche sazia la fame di bambini e adulti…). Quei bicchierini sono continuamente in uso e lavati come si può, ma l’ottimo tè è sempre bollente…

Il padre ha una malformazione alle ultime due dita della mano: sono completamente unite, rattrappite e coperte da un’unica pelle. Chiede aiuto per la famiglia. La moglie non dice una parola, sta seminascosta dietro lui o dietro la porta della loro tenda; noi siamo fuori, in un piccolo atrio semicoperto. Il padre chiama qualcuno dei 4 figli piccoli: la bambina e suo fratello ci mostrano le mani con la stessa deformazione, lui sostiene che si è formata progressivamente. I volontari contattano subito la mezzaluna rossa palestinese perché proprio pochi giorni prima era arrivata loro una mail che segnalava la disponibilità di un chirurgo specializzato nelle mani e c’è la possibilità di farli visitare e operare presto, probabilmente a Beirut. Due giorni dopo la madre con i due figli verrà con noi a Tripoli; un volontario la accompagna alla visita medica e i piccoli saranno operati a breve.

Nel frattempo, il giovane seduto vicino a me, tenta di spiegarmi in arabo le sue vicende e mostra a tutti una lunga cicatrice da tortura sul braccio destro. L’altro, finora silenzioso e circospetto, arrotola il bordo dei calzoni fino al ginocchio: entrambe le gambe sono coperte da un’estesa ustione (pare mista a nylon sciolto), dai piedi a sopra le rotule. Stava dormendo quando un razzo è scoppiato nella sua stanza. È un nuovo arrivato e andrà subito segnalato ai funzionari ONU per un colloquio e la registrazione come profugo; poi si vedrà come intervenire.

Uscendo dal campo un’altra breve visita a una famiglia e l’incontro in strada con un bimbo di 4-5 anni che sta steso in un passeggino: ride per salutare, è magrissimo e rannicchiato, quasi rattrappito in un evidente ritardo di crescita. “Una meningite curata male, ha difficoltà respiratorie continue”, ci viene spiegato.

Passiamo davanti alle cisterne interrate, appena dietro le tende, ora recintate. L’inverno scorso Amal, la bambina di una famiglia molto povera, è caduta nel pozzo e annegata prima che qualcuno potesse aiutarla. Il corpo immobile venne posto su di un tavolo, con un velo azzurro sopra.

Usciamo da questo girone infernale e torniamo nel nostro campo attiguo: per oggi va bene così.

lunedì 7 maggio

Pochi chilometri fuori Tel Abbas c’è una famiglia di siriani da andare a incontrare. Arriviamo a piedi inoltrandoci per una stradina che porta in mezzo a campi di patate. Loro coltivano fragole. Il capofamiglia ci viene incontro, è un uomo distinto, in camicia bianca ineccepibile.

Vediamo la baracca dove vivono alla nostra destra, proprio sul limitare del campo di fragole. Tra noi li chiameremo ‘la famiglia delle fragole’. Figlie e figli, otto in tutto dai 4-5 anni in su, assieme alla mamma portano alcuni tappeti per sedersi per terra proprio alla fine della stradina, vicino a un cumulo di sterpi e ramaglie secche; arriva anche qualche sedia e dopo poco l’immancabile tè bollente, dolcissimo ma dall’aroma così intenso e profumato. Appena seduti una delle loro piccole, su invito della madre, va a raccogliere e ci porta un giglio di campo per ciascuno.

Iniziamo a parlare e spunta una figura di uomo di mezza età, malvestito e grosso; un libanese (un ortodosso, ci dicono poi i volontari). È il padrone del campo e, come scopriremo presto, anche di loro. Per questo vuol sentire cosa ci diciamo e si prende una sedia mettendosi a un paio di metri fuori dal nostro cerchio di conversazione. Dopo un po’ lo invitiamo ad avvicinarsi, inutile far finta che lui sia fuori dal colloquio… Passano una decina di minuti e su un furgoncino arriva anche suo nipote che pare collabi alla gestione; lavora a Beirut come poliziotto (…!).

Tutta la famiglia lavora per il proprietario, dalle 5 di mattina. I bambini e ragazzi possono andare a scuola alle 15 del pomeriggio, dopo aver lavorato: dai cinque anni in su tutti devono lavorare. A loro ha dato una baracca fatiscente, un po’ di corrente elettrica; l’acqua potabile devono comprarla; non c’è un frigorifero né una stufa per il freddo inverno; la latrina è molto peggiore delle nostre al campo… D’inverno portano in baracca il braciere che vediamo a fianco delle sterpaglie secche e lì bruciano qualche pezzo di legno, finché ne hanno… Il compenso mensile per il lavoro di tutta la famiglia è 20 dollari (per le fragole ci sono 5 raccolti all’anno durante 4 mesi). Le cifre mensili di retribuzione (se così la si può chiamare) sono confermate da indagini di funzionari Onu.

Ci raccontano quel poco che si può; erano contadini anche ad Aleppo, poi sono dovuti fuggire; la loro casa è distrutta. Sono arrivati in Libano 4 anni fa. Davanti a noi il capofamiglia non può che ringraziare: “il padrone ci ha aiutato molto…”, dice. Il suo sguardo ‘anomalo’ con la signora siriana, oltremodo inconsueto per quei contesti, viene notato da qualcuno di noi: sarà bene capire fino in fondo a cosa è sottoposta questa gente. Molte altre famiglie vivono lì attorno in modo simile: il fratello del capofamiglia, a neanche un chilometro di distanza, ha già accumulato 4mila dollari di debito col proprietario.

Alla ‘dottora’ parlano di pastiglie portate loro da MSF per la madre e mostrano delle micosi sulla pelle delle mani di alcuni figli e il difetto di vista del figlio maggiore (ma anche intellettivamente appare un po’ compromesso).

Il padre propone al padrone di poterci offrire delle fragole. Il padrone in arabo gli dice di non prenderle dal raccolto, ma di mandare nuovamente nel campo i figli. Il padre ha un accenno di imbarazzo e contrarietà, chiama due figli e li manda nella coltivazione a prenderci due cesti di fragole. I frutti sono davvero meravigliosi, ma siamo tutti pietrificati e solo un po’ alla volta iniziamo a gustare il frutto di tanta oppressione.

Il padrone accenna a dire che dovrebbero valere un dollaro l’una tanto sono buone e ci mostra orgoglioso una foto nel suo cellulare con una copertina di “Vogue” che indica le sue fragole come le migliori… Chi le compra, come sempre, non sa e non vuol sapere. Sente il gusto, ma non mastica la storia della loro provenienza.

Andando via il capofamiglia fa qualche metro con noi, allontanandosi quanto basta dal padrone e così ci si accorda per una telefonata in un momento diverso. Con il modesto contributo ONU che ricevono non possono andare oltre la sopravvivenza stentata che vediamo. Un accenno sottovoce di uno dei volontari a lasciare qualche soldo per loro lo fa irrigidire: “no, no… assolutamente, no… non qui; se lui vede è un problema…”.

 La sera siamo invitati a cena dalla “nonna di Raqqa”, già visitata dalla ‘dottora’ dopo essere caduta in strada, spinta accidentalmente da un auto mentre camminava sul ciglio della strada. Vive da sola nella tenda, ma sua figlia è venuta dal paese dove abita per preparare la ricca cena a tutti noi. Si è portata la sua piccola di poco più di un anno e mezzo che gironzola tra le braccia della nonna e lo spazio apparecchiato per terra che va riempendosi di più piatti da portata di quanti siamo noi. La nonna di Raqqa è una donna anziana, di grande carattere e molto sciolta nel relazionarsi (bacia sulle guance tutti i volontari, ne parla come fossero figli, si ricorda di quelli di anni fa…).

Dopo le 21 la bimba inizia a ciondolare più incerta e la giovane mamma le dà in mano un biberon di latte. Lei si guarda attorno, vede un piccolo cenno della mia mano e viene a stendersi sul mio addome, con la testa all’indietro; con il tipico sguardo immobile a palpebre spalancate dei piccoli, inizia a bere il latte fissandomi e completamente assorta. Appena finito si rianima e se ne va. Anche noi andiamo a dormire.

martedì 8 maggio

La notte molti sono rimasti chiusi impauriti nelle tende: cittadini libanesi armati sparavano per celebrare le elezioni e nel silenzio rimbombavano i rumori di kalashnikov ed esplosioni inquietanti. Pallottole incendiarie tracciavano il cielo scuro, prima comparendo con le scie rosse e successivamente facendo sentire il suono della mitragliata. Tutti abbiamo sentito, molti uomini sono stati in piedi irrequieti a girare nelle piccole tende, nessuno di loro si è sognato di uscire.

Khaled, un ragazzino di una decina d’anni, al mattino si avvicina con aria di sfida a un volontario e gli salta al collo, “Hai avuto paura ieri notte?” gli chiede il volontario. “No”, risponde sfacciato, “Perché?”, “Non lo so perché, ma non ho paura”.

Incontro con un profugo siriano trentenne: è un traduttore dalla lingua inglese, la prima figura che incontriamo che non svolgeva attività di manovalanza (finora tutti contadini, muratori, un marmista, …). Ha dolori e problemi alle articolazioni della spalla e di un piede; sono conseguenze di torture in carcere in Siria; è stato anche torturato con l’elettricità ai genitali. È uno dei pochi che ha parlato in qualche occasione pubblica, ma dopo pochi giorni, finché faceva jogging, da un’auto sono scesi quattro libanesi (pare hezbollah) e l’hanno picchiato. Qui non è al sicuro e necessita di interventi medico/chirurgici ed entrerà nei prossimi ‘corridoi umanitari’ assieme ad altre famiglie del campo, forse già a fine maggio o a metà giugno.

Durante questa giornata una volontaria è andata assieme alla ‘dottora’ a visitare una famiglia che abita qualche decina di chilometri distante da noi, in zona montuosa. Sono andati ad abitare lì per il clima più favorevole per il figlio che soffre di una patologia congenita del sangue. Hanno un altro figlio e un’altra è morta qualche tempo fa per un problema al cuore. Potrebbero entrare nelle prossime partenze dei ‘corridoi’, ma il marito non ne vuol sapere e non si capisce perché… La situazione di salute del figlio è piuttosto grave, non potranno bastare le trasfusioni periodiche; continuando così tra qualche anno morirà, necessita di altre, costose, cure che può avere solo in Paesi europei. La volontaria già altre volte aveva provato a capire i motivi del marito (lavora in qualche modo come muratore), che non si è mai fatto trovare agli incontri, ma senza riuscire a smuovere la situazione.

Oggi, forse di fronte a un quadro medico più capibile per lei e anche per il fatto di essersi incontrata con sole donne, a un certo punto scoppia a piangere e inizia a offendere il marito assente e autoritario e a dire che non ne può più e che vuole andarsene in Europa anche da sola con i figli. Ma la legge prevede il consenso del coniuge che lui non darà… I volontari le promettono di studiare meglio le possibilità per poterla sganciare e si accodano per tornare in un momento in cui lui sia di certo a casa.

mercoledì 9 maggio

Da ieri sera sono arrivati due giornalisti italiani, uno de La Stampa e collaboratore di Limes e l’altro di Avvenire, che hanno dormito al campo. Hanno chiesto di incontrare 1-2 famiglie per rendersi conto e potere scrivere qualcosa delle loro storie. La famiglia di Abu-Mohamed, perno del campo, ci ha già invitati a una colazione che presto si confonde con un pranzo, dandoci occasione di capire meglio il percorso che hanno seguito per giungere qui al nord del Libano.

Anche loro vivevano ad Aleppo e hanno vagato due anni, spostandosi man mano che arrivavano i bombardamenti e gli scontri. Il terrore era di essere arrestati, incarcerati, torturati. Ad ogni posto di blocco, di regolari o di altre milizie, dovevano pagare i soldati per passare. Hanno fatto il conto: ne hanno attraversati almeno 180.

Il padre ancora oggi, se vede una divisa arrivare al campo – anche di un semplice poliziotto del vicino centro abitato – si richiude in ‘casa’ terrorizzato con la famiglia.

Anche in Libano le carceri sono dure, specie per i profughi, e ci si può finire anche solo se scade il permesso ONU: 4-5 giorni di arresto. Molti hanno raccontato di venire incappucciati e legati, e poi offesi, picchiati e bastonati dalle guardie; alcuni che sono stati fermati e trattenuti con tutta la famiglia anche solo per una giornata hanno detto che sentivano dalle celle vicine le urla delle persone maltrattate.

Dopo pranzo vediamo ancora una volta bambini e ragazzi prepararsi per andare a scuola, contenti.

Anche noi partiamo: negli ultimi giorni gireremo il resto del Libano. Uno sguardo prima di partire, come si fa…?

“a me piace pensare che, con la nostra presenza,

gli diamo solo una briciola di quella forza e resilienza

che dimostrano di avere e che a noi regalano smisuratamente.”

(P., volontaria dell’Operazione Colomba)

 

Marco Vincenzi

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