Share to Facebook Share to Twitter Share to Linkedin 

Articoli più letti

02-05-2009

NON RIESCO A RASSEGNARMI

Miguel, è un nome che suona dolce come un claves. E tu eri una persona...

03-05-2009

SOLTANTO BARBARIE

  Cara Delara Darabi, io non so se tu eri colpevole come ti sare...

18-05-2009

ERA SOLTANTO UN SOGNO

Il barcone veleggiava, sì fa per dire, verso le coste africa...

06-06-2009

LO SPORT PREFERITO

Ci vuole un genio per fare le vere domande- diceva Oscar Wilde- e non ...

30 apr 2012
FESTA DEL LAVORO?
Scritto da Piergiorgio |
Letto 8774 volte | Pubblicato in Il mio blog
Dimensione carattere Riduci grandezza carattere incrementa grandezza carattere
Valuta questo articolo
(1 Vota)

Le ultime parole pronunciate da Spies, uno degli impiccati l'11 novembre del 1887 a Chicago (USA), tra operai, organizzatori sindacali e anarchici condannati per aver organizzato il 1º maggio dell'anno precedente lo sciopero e una manifestazione per le otto ore di lavoro, furono: “Salute, verrà il giorno in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che oggi soffocate con la morte!” La festa del primo maggio (chissà quanti lo sanno!) è nata nel sangue; frutto di rivendicazioni di operai che lottarono per migliorare le proprie condizioni lavorative. Anche oggi, si tenta di soffocare la voce di quanti chiedono dignità e lavoro, non più attraverso la corda e l’impiccagione, ma attraverso strumenti più subdoli e forse più efficaci: l’indifferenza, la legge del profitto ad ogni costo, lo smantellamento dei diritti acquisiti, l’impero del denaro e della finanza al quale è richiesto l’omaggio da parte di ogni coscienza.

Era un mercoledì, quel 15 luglio 1970, quando per la prima volta varcai i cancelli della fabbrica nella quale avrei lavorato per dieci lunghi anni, prima di intraprendere l’attività che in seguito avrebbe contrassegnato la mia esistenza. Ricordo ancora l’emozione e il timore con i quali mi accinsi a quella mia prima giornata di lavoro. Mi si apriva davanti un’opportunità che, pur contrassegnata dal clima non certo facile di quegli anni di turbolenze, di forti contrasti sociali, di lotte e rivendicazioni sindacali, significava comunque una prospettiva di vita; la possibilità di progettare un futuro, la speranza concreta di poter costruire il mio avvenire contando su un reddito in grado di permettermi di idearlo concretamente. L’impatto con il lavoro di fabbrica non fu per niente facile. Però eravamo animati da (ingenui?) grandi ideali; da una spinta enorme verso il cambiamento e dalla convinzione di essere protagonisti di una storia collettiva tutta da scrivere, che avrebbe portato a un cambiamento radicale nei posti di lavoro e dentro la società nel suo complesso. E se l’ attività, per come si svolgeva, era avvertita come noiosa, stancante, frustrante, tuttavia avevamo la sensazione che anche il nostro lavoro servisse al progresso sociale. Questa consapevolezza, unita al vincolo della appartenenza di classe, il sentirsi parte di un tutto, la lotta comune per un domani più giusto, bastava a farci sentire orgogliosi di essere operai. Ci sentivamo importanti, sapendo di contare. Da allora è passata un’era geologica, o forse anche più d’una. Il mondo di oggi è così diverso, da apparire irriconoscibile, se osservato con gli occhi di allora. Mi chiedo se sia cambiato in meglio o in peggio e francamente non so darmi una risposta. Osservo con sgomento quanto sta avvenendo: fabbriche che chiudono, diritti conculcati, disoccupazione crescente, precarietà fatta sistema, prospettive di futuro incerte per migliaia di persone, offerta di lavori che chiamarli tali è fare un affronto al termine lavoro. Quello del lavoro è un tema che dovrebbe stare in cima all’agenda di tutti; specie di quanti hanno responsabilità a livello politico e sociale. Non pare sia così. In troppi non se ne curano o se lo fanno, lo fanno con argomenti obsoleti, fuori del tempo. Il mantra ossessivo, ripetuto da tutti, è che serve la crescita, per uscire dall’impasse nella quale ci troviamo. Si finge di non vedere che il modello sul quale ci siamo retti è giunto al capolinea. Per l'economista keynesiano Robert Skidelsky anche quando la crisi sarà finita ci saranno meno posti di lavoro rispetto a prima, a causa della la rivoluzione tecnologica avvenuta. Per questa stessa ragione un autorevole gruppo di economisti inglesi prospetta come unica possibile soluzione alla crescente disoccupazione, la riduzione dell’orario di lavoro per tutti. Lavorare meno per lavorare tutti! E qui ritorna prorompente il discorso dell’equità, della giustizia distributiva. Oggi ci sono persone che si ammazzano di lavoro, magari guadagnando cifre enormi, ed altre che si ammazzano a causa della mancanza di lavoro. Una società basata sulla mercificazione del lavoro, per cui si finisce che si vive solo per lavorare (chi può); si lavora per guadagnare e si guadagna per consumare, non può reggersi a lungo. Un approccio adeguato deve comprendere il lavoro come un bene per tutti, secondo le capacità di ognuno. Il concetto di lavoro-bene per tutti rimette a una concezione solidale della società e dei beni. Quando, per qualunque motivo, diminuisce la necessità di quantità-lavoro, la solidarietà esige che il lavoro disponibile sia diviso tra tutti i lavoratori potenziali. (http://www.chiesacattolica.it/ Il significato del lavoro umano Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro). Io credo he per affrontare i drammatici problemi nei quali ci troviamo, non servano riforme del lavoro calate dall’alto, come sta avvenendo, e che rispondono alla logica imperante: quella liberista. Servirebbe piuttosto la convocazione di stati generali del lavoro, in grado di coinvolgere una pluralità di soggetti: dall’imprenditoria, alle organizzazioni sindacali, dalla politica, alla cultura, dalla società civile nelle sue varie espressioni, alla religione. Insomma un laboratorio di pensiero alto e plurale, in grado di avanzare proposte innovative nel segno della solidarietà tra generazioni, dell’equità, della giustizia, del bene comune. Perché quello che serve davvero è avviare un cambiamento che non può che essere epocale. Serve un ripensamento del concetto stesso di lavoro. Il teologo Mattehw Fox, nel suo libro In principio era la gioia, scrive: “Un approccio trinitario anziché dualistico al lavoro, all’arte e al gioco, riconoscerebbe come questi tre elementi siano essenziali per l’espressione umana e per la crescita continua del cosmo e della società. La disoccupazione verrebbe attaccata alle radici, che si trovano tra l’altro nella definizione troppo limitata di lavoro che viene data dalla nostra cultura. Come se fare il clown, suonare uno strumento o meditare non fosse lavoro. O come se il lavoro non dovesse avere nulla in comune con il gioco. Recuperare la santa trinità di lavoro, arte e gioco significherebbe recuperare la dignità degli esseri umani nella loro somiglianza al Dio trino che opera, crea e si diverte”. Le risposte che si danno in questo momento, sia pure spacciate come necessarie e urgenti, con l’avallo dei sacerdoti del pensiero unico imperante, temo che alla fine si riveleranno per quello che sono: rattoppi peggio dei buchi che intendono rappezzare.

Contatti

Da:
Oggetto:
Nome:
Messaggio:
Please enter the following
 Help us prevent SPAM!

Accesso riservato

Copyright & Credits

I contenuti di questo sito non possono essere riprodotti, copiati, manipolati, pubblicati, trasferiti o caricati, con nessun mezzo, senza il consenso scritto dell'autore.

E' vietata l'utilizzazione, anche parziale, sia per scopi commerciali che no profit.

Chi avesse interesse ad usufruire di contenuti di questo sito è pregato di contattarmi.


Contatore visite

1870832
OggiOggi328
IeriIeri1636
Questa settimanaQuesta settimana5022
Questo meseQuesto mese1964
TuttiTutti1870832