Forse è proprio perché abbiamo smesso di farci domande che in troppi abbocchiamo come pesci istupiditi alle risposte facili, preconfezionate, che altri ci offrono.
Direi che questo lo si nota in particolare sui così detti social, nei quali pare dilagare tante volte il conformismo più bieco. Accade così che molti nemmeno si pongano la domanda se un determinato post abbia o meno fondatezza; basta che intercetti il proprio punto di vista, o peggio la propria frustrazione, la propria rabbia, risentimento o impulso per farlo proprio. Ha ragione il costituzionalista Michele Ainis (l’Espresso 22 luglio 2018) quando afferma che «A conti fatti le domande pesano più delle risposte. Perché le condizionano, le orientano, ne prefigurano le risposte». L’argomento di cui tratta Ainis nel suo articolo è il referendum, però avanza due semplici esempi che fanno al caso nostro. Ricorda che la destra, da Reagan a Berlusconi, ad esempio, ha costruito il proprio consenso anche sulla domanda posta agli elettori se desideravano pagare meno tasse. È del tutto evidente che a una simile domanda risulti difficile a chiunque rispondere no, ma giustamente Ainis evidenzia come sarebbe assai diversa la risposta se la domanda riguardasse la disponibilità a rinunciare ai servizi offerti dallo Stato. Allo stessa maniera, incalza Ainis, è assai diverso domandare, come fa Salvini, se sia giusto contrastare il traffico di esseri umani sul quale prosperano le Ong, oppure chiedere e chiedersi se sia giusto salvare dal naufragio gli immigrati. Le domande possono riguardare lo stesso argomento ma la differenza la fa il modo con il quale le si formulano. «Ogni domanda» osserva acutamente Ainis, «contiene nel suo seno la risposta, anche se noi, per lo più, non ci facciamo caso». Può essere, aggiungo io, che pur cambiando la domanda più di una persona risponda allo stesso modo. In questo caso però sarebbe costretta ad assumersi la responsabilità di quanto affermato; senza più scuse di sorta, senza distinguo. Per rimanere, ad esempio, al tema dei migranti, chi dinanzi alla domanda se sia giusto o meno salvare i profughi dal naufragio si dichiarasse per il no, con tuta probabilità sarebbe giustamente stigmatizzato anche da quanti nutrono il medesimo sentire nel loro retro pensiero. Non tutti, per nostra fortuna sono dei pazzi lucidi come Anders Behring Breivik che il 22 luglio del 2011 compì la strage sull’isola di Utoya, uccidendo 69 persone, tra le quali molti adolescenti. Fin troppi però, sia pure con accenti diversi, si riconoscono in forze politiche quali quelle che nelle sue tesi deliranti il Breivik considerava possibili alleati e che oggi, in alcuni paesi europei, sono al governo. Ecco perché, dalla realtà quotidiana, nelle relazioni quotidiane, come sui social, a quanti manifestano atteggiamenti di intolleranza, xenofobi o addirittura razzisti, oltre alla condanna, e forse anche prima della condanna, dovremmo imparare a porre le giuste domande; costringerli a riflettere e darsi delle risposte in proprio, senza mutuarle da altri.