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26 giu 2018
QUANTO ERANO BELLI I “MORETTI” DI UNA VOLTA
Scritto da Piergiorgio |
Letto 7243 volte | Pubblicato in Il mio blog
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Africa significava avventura, savana, safari, storie di coraggio e di eroismi veicolatici dalle riviste missionarie dell’epoca. Un continente fatto per sognare ad occhi aperti come sogliono fare i ragazzini.

E quei bimbetti neri sorridenti dalle pagine della rivista o da qualche cartolina distribuita nelle annuali occasioni per raccogliere denaro, erano sì, belli simpatici e sorridenti, ma soprattutto da salvare perché immersi nelle tenebre. Si sa, da ragazzini è facile entusiasmarsi, o quanto meno lo era allora per noi che pendevamo dalle labbra di qualche missionario giunto in paese per l’occasione. Anche gli adulti erano facili alla commozione e sulla base di quella mettevano pure mano al portafoglio, dividendosi tra prodighi e spilorci. Più che spilorcio fu perfido, Sghembo, mettendo in mano, anzi nella musina, (salvadanaio) che gli aveva porto un ragazzino, na slazzega (rondella di metallo) al posto di una moneta. A ben pensarci il salvadanaio del quale avevano dotato i ragazzini era peggiore del gesto canzonatorio dell’uomo. Aveva infatti sembianze umane: una testa di moro che porgeva la lingua a comando, azionando un tasto. Per quei ragazzini l’orrendo salvadanaio non era altro che un giocattolo innocente e spiritoso, ma chi lo aveva ideato, cosciente o meno che fosse, aveva dato corpo, interpretato e definito un modo di pensare (una filosofia) l’aiuto al prossimo che non è cambiato molto nel sentire di tanti: un’elargizione data dall’alto, senza contaminazione. Ricordo un altro fatto di tanti anni addietro. Un giorno, di fine anni Sessanta, ero allora studente, tornando dalla città, in corriera, mi ritrovai seduto accanto a un prete africano. Appresi che era diretto proprio in paese e conversammo amabilmente. Quanto smontammo dalla corriera mi offrii di accompagnarlo dalla signora alla quale era diretto. Nel breve tratto di strada che percorremmo, fummo attorniati da un numeroso gruppo di ragazzini, incuriositi dalla presenza di un “moro” in paese. Cosa comprensibile per chi non aveva mai visto un nero. È capitato anche a me, da ospite in altri paesi, di essere oggetto di curiosità da parte di ragazzini del luogo. Quando arrivammo a casa della signora, mamma di una suora missionaria in Africa, questa per poco non svenne dall’agitazione, trovandosi davanti l’estraneo, il forestiero, il barbaro che certamente amava, almeno idealmente, se aveva dato una figlia all’Africa. La preoccupava il fatto di non sapere che cosa dire prima ancora che quello aprisse bocca e si presentasse in un perfetto italiano, dicendole che era giunto fino da lei per portarle i saluti della figlia lontana. Anche noi, dinanzi allo straniero che giunge oggi da immigrato, perdiamo a volte lucidità e capacità di rapportarci con lui solo perché non ci diamo il tempo e il modo di stare in ascolto, senza la pretesa di saper tutto in partenza. Diciamocelo francamente: non amiamo l’imprevisto, il non conosciuto ci spaventa e anziché metterci in cammino verso il diverso, accettando il rischio della relazione, tutta da costruire, preferiamo la sicurezza priva di vita dell’abituale. Intanto i nostri paesi muoiono giorno per giorno come sono morte le tante case chiuse, abbandonate, un giorno piene di vita e di persone. Le strade sono deserte come è deserto l’animo delle persone, però i “moretti” presenti oggi sulle nostre strade fanno paura. Non sono belli come quelli di allora… in cartolina. Eppure basterebbe incontrarli; parlarci, farci conoscere e conoscere loro perché un nuovo mondo nasca e nasca bello, piacevole, desiderabile.

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