Il presepio era povero in casa nostro, da bambini; si intonava necessariamente con il resto della nostra abitazione che non aveva nulla delle comodità venute in seguito. Ma questa era condizione comune a tutti in paese.
Anche le nostre case erano per certi aspetti dei presepi viventi; solo che avevano un maggior numero di “bambinelli”. Magari non dormivano proprio sulla paglia, ma stipati come piselli in un baccello, questo sì. Il presepio lo si faceva con il muschio che raccoglievamo nei boschi e poi ci si affidava alla fantasia e alla intraprendenza di ciascuno. L’albero lo tagliavano i grandi di nascosto, portandolo in casa a ore perse, mentre le mamme si incaricavano di addobbarlo: poche palle colorate, qualche biscotto, qualche caramella e poche candeline di cera che si accendevano a risparmio. Sotto l’albero non c’erano pacchi dono. A quelli, nel caso se ne fosse ricordata, aveva già provveduto a recapitarli santa Luzia. Ma in genere si comportava da verduraia, lasciandoci nel piatto un po’ di frutta: mandarini, qualche arancia, fichi secchi e noccioline (bagigi). Un presepio bello grande era eretto in chiesa. Quello aveva statuine molto più grandi; aveva laghi, monti, il castello di Erode e cammelli grandi come dei conigli. In qualche casa dove c’era qualche mezzo artista, si potevano ammirare dei presepi che incantavano la vista, come quello del Federico, che era arricchito da uccelletti fatti con il legno e con le ali che sembravano rubate a quelli veri, tanto sembravano in procinto di volare. Non c’era il cenone di Natale. La cena della vigilia era simile a quelle degli altri giorni e per dessert c’era la funzione religiosa in chiesa. Sopra il tabernacolo c’era un Bambin Gesù quasi a grandezza naturale. Forse era infreddolito quanto noi, dentro la chiesa che non era riscaldata, però di certo non soffriva di buganze (geloni). Tornati a casa accendevamo una della quattro cinque scintille di natale (che chiamavamo razzi) appese all’albero, gustandoci meravigliati quello schizzo di stelline nel buio della stanza. Però il pranzo del giorno di Natale, beh, quello sì, era più ricco e più gustoso di quello degli altri giorni. Anche se poveri, le feste grandi (Natale, Pasqua e Sagra) avevano tavole imbandite in modo diverso. Il vestito della festa si smetteva dopo Messa granda perché non si sciupasse, ma in casa si respirava aria di festa che profumava di affetto, di gioia allegria e serenità, forse più di adesso.
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È buio più che mai in questo tuo Natale, Signore, ma tu vieni ancora. Non ti stanchi mai di venire da noi e lo fai, come hai sempre fatto, scegliendo le periferie esistenziali di chi sopravvive rosicchiando ore alla vita con fatica, come chi non ha un tetto, un lavoro, manca di salute, è privato di diritti, è cacciato, perseguitato, incarcerato, fugge dalla fame, dalla guerra, è disconosciuto, umiliato, confinato ai margini, fuori le mura. Servono occhi di pastori reietti, di pagani come i maghi d’Oriente per riconoscerti nell’umanità negata di tutti questi che boccheggiano invocando fraternità e tenerezza. Ne saremo capaci? Saremo capaci di accendere fiaccole di speranza in grado di illuminare questa notte? È questo che ci è chiesto da te che hai assunto la nostra carne ferita. Allora potremmo cantare con gli Angeli pace in terra agli uomini amati da Dio. Buon Natale.