I quotidiani trentini di oggi dedicano ampio spazio a tafferugli avvenuti ieri pomeriggio in città tra gruppi d’immigrati. Da come sono stati descritti i fatti, si è trattato certamente di qualche cosa che ha superato ampiamente i limiti, per così dire fisiologici, di taluni comportamenti da parte di persone che vivono ai margini e tante volte nell’illegalità.
Quindi sono più che giustificati gli allarmi della cittadinanza, la paura di quanti tra gli operatori economici vedono messa a rischio la propria sicurezza personale e la richiesta di maggiori controlli accanto alla doverosa repressione di tutto ciò che può costituire reato. Tuttavia, a mente fredda, guardando con il distacco che mi permette la riflessione fatta a “distanza”, credo che sarebbe un’illusione se ritenessimo che la violenza sia patrimonio esclusivo di determinate fasce di popolazione, solo perché più manifesta, e cercassimo di esorcizzare, non riconoscendola, quella che contamina un po’ tutti noi, nei comportamenti quotidiani, nel modo di pensare e sovente di affrontare gli inevitabili conflitti che il vivere assieme comporta. Tornando a quanti si sono resi responsabili di quanto accaduto ieri, credo che in molti trascuriamo di riflettere sul fatto che spesso sono a loro volta vittime di violenza, in tanti modi diversi, a iniziare dalle esperienze precedenti fatte nei luoghi di origine, passando per quanto subito nei loro percorsi migratori, fino a giungere a quelle patite quotidianamente da noi. Probabilmente la convinzione che hanno introiettato, quella che appare loro l’unica praticabile, è che il farsi giustizia da sé, sia l’unica che paga. Questa coscienza delle cose l’ho potuto costatare tante volte di persona, in passato, quando lavoravo al Punto d’incontro. Certamente non è una giustificazione, però dovrebbe aiutarci a operare per sanare questo tipo di ferita che tanti di loro si portano dentro. Non è cosa semplice, perché richiede tempo; volontà e capacità di instaurare relazioni sananti, e volontà politica di offrire a tali soggetti opportunità reali d’inclusione e di vita. Tuttavia è urgente che si operi su questo versante, ed è compito di tutti farlo. Ritenere che basti soltanto schiaffarli in prigione e buttar via le chiavi, come accade il più delle volte, serve soltanto a incattivirli ulteriormente, mettendo in libertà, al termine della pena che dovranno scontare, personalità ancor più ferite e pronte a ricominciare.