Festeggiare la nascita della nostra Repubblica, è qualcosa che mi coinvolge e mi riporta l’eco delle speranze che quell’avvenimento suscitò nel cuore di milioni d’italiani, in quell’ormai lontano 1946. All’indomani di una guerra disastrosa e di una lotta di liberazione che richiese molte vittime, sorse un’alba di speranza, resa possibile proprio grazie al sacrificio di migliaia di persone che ebbero il coraggio di credere in un futuro migliore, in tempi che certamente non si presentavano come favorevoli.
La nuova Carta costituzionale che ne seguì, frutto dell’incontro di diverse culture, segnò l’inizio di una prospettiva di vita carica di attese che non sono state sempre onorate; anzi, al contrario, del tutto disattese. Una di queste riguarda il ripudio della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. Siamo ben lontani dall’aver fatto nostro quello che non era soltanto un auspicio dei costituenti, bensì un modo diverso e alternativo di porsi e proporsi nei confronti degli inevitabili, per tanti versi, conflitti fra gruppi e popoli. Certo, oggi, là dove si interviene militarmente, quasi mai si denominano tali interventi come azioni di guerra. È un termine che a tutti, a parole, ripugna. Però di guerra si tratta. Ma si è preferito derubricare il termine così indigesto, attribuendogli una qualifica meno grave. Si preferisce chiamare intervento umanitario, oppure operazione di polizia internazionale o altro ancora, ciò che è e rimane guerra a tutti gli effetti; sicuramente nei suoi esiti disartrosi di morte e distruzione. E per poter fare questo, ci si arma in modo sempre più sofisticato, spendendo risorse ingenti. Si calcola che ogni due settimane, in armamenti, nel mondo, si spenda l’equivalente al fabbisogno necessario per provvedere al cibo, all’acqua, alla educazione, alla salute e alla casa per tutta la popolazione mondiale. Anche il nostro beneamato Paese non sfigura a questo riguardo. Pertanto, veder sfilare in parata copri militari e strumenti di morte lungo le vie di Roma, in occasione di questa festa, mi rattrista, mi fa piangere, anziché gioire. Non mi sento per niente orgoglioso. Sogno il giorno in cui tutto questo, se mai si ripeterà, sarà soltanto folclore, come avviene per la rievocazione di guerre e battaglie del passato, ad uso dei turisti. Per ora non mi resta che sperare e chiamarmi fuori.