La parola d’ordine è fare in fretta. Meno chiaro è il perché si debba correre, e ancora meno la meta finale della corsa. Si deve fare in fretta perché il Paese non può più attendere; necessita di riforme profonde, epocali, ci dice il premier, e ci ripetono quanti l’attorniano, trasformandolo in un mantra, dal vago sapore catartico.
Che ci sia bisogno di un profondo cambiamento, a ogni livello, per rispondere alle mutate esigenze e per portare a soluzioni almeno qualcuno degli innumerevoli problemi che angustiano migliaia di persone, è fuori discussione. Sono le ricette proposte che non convincono e neanche il metodo. Prendiamo la riforma della legge elettorale, del Senato e del titolo V della Costituzione, ad esempio. Davvero è ipotizzabile immaginare che riducendo gli spazi di rappresentanza politica; limitando al minimo i meccanismi di controllo, in nome della governabilità (parola magica di cui già Berlusconi per un ventennio si è impossessato) tutto si risolva, aprendo la strada alla soluzione di ogni problema? Non sarà, invece, che si voglia, dietro parole roboanti, attraverso scorciatoie legislative, modificare in termini autoritari l’impostazione del nostro sistema costituzionale? C’è chi questo pericolo lo denuncia in modo chiaro, e a farlo non sono degli sprovveduti, né tanto meno persone pregiudizialmente contrarie a ogni riforma ma fini intellettuali e costituzionalisti, i quali, giustamente osservano che il fatto che a proporre (meglio sarebbe dire a voler imporre) queste modifiche sia Renzi del PD anziché Berlusconi, non fa alcuna differenza, perché la bontà di una soluzione non si giudica da chi la propone, ma dai risultati che prevedibilmente produrrà. Quanto al metodo, poi, non c’è davvero da esultare, stando alle dichiarazioni dello stesso Renzi, che pare non sopporti critiche di sorta; anzi le sbeffeggia, arrivando a sostenere che, semplifico, o si fa come chiede lui, oppure se ne va, ritirandosi dalla politica. C’è sempre stato chi, a fronte di situazioni complesse, si è proposto e si propone come il semplificatore della situazione, e ci sono certamente situazioni nelle quali bisogna avere il coraggio e la determinazione per fare delle scelte, concentrandosi sugli aspetti più importanti e lasciar stare quelli secondari. Non credo però che sia questo il caso. Nell’antica Roma, in via eccezionale i consoli potevano ricevere dal senato i pieni poteri. Ma appunto in via eccezionale. Oggi pare farsi strada l’idea che chi viene eletto per governare, debba poter disporre di un potere eccezionale, comunque straordinario perché solo in questo modo gli sarà possibile svolgere a meglio il suo mandato. L’idea che un uomo solo al comando sia più efficace ed efficiente di una squadra coesa, di un raggruppamento ampio che abbia realmente il consenso della maggioranza della popolazione, pur operando secondo i canoni della democrazia rappresentativa, è un’idea malata, oltre che pericolosa. Non è un caso, a mio parere, che simili idee possano trovare maggior consenso in tempi di crisi. Anziché operare sulle cause che hanno portato a una pericolosa disaffezione tra eletti ed elettori, si preferisce operare sulla forma di governo che porterà, forse anche a qualche risultato pratico nell’immediato, ma di certo segnerà un maggior distacco tra governanti e governati. Lo stesso discorso vale anche per quanto riguarda il tema drammatico della disoccupazione. La cosa certa, del momento presente, è che i disoccupati non hanno rappresentanza, che la loro crescita è dovuta essenzialmente alla mancanza di offerta di lavoro. Anziché operare su questo versante; su un ripensamento degli orari, della produzione, delle opportunità, si interviene sulle regole, quasi che da sole possano creare nuovi posti di lavoro. Ormai di riforme del lavoro ne abbiamo conosciute diverse; nessuna di queste ha realmente invertito la tendenza in questo campo; anzi, siamo arrivati a toccare cifre, lo ha riconosciuto lo stesso Renzi, sconvolgenti. E tutto quello che si propone, è una maggior precarizzazione del lavoro. Davvero vale la pena correre verso il baratro, oppure non sarebbe meglio fermarsi a riflettere, chiedendosi se non sia il modello di sviluppo che domanda di essere ripensato, e con questo l’intera organizzazione del lavoro?